Economia – Semi di Scienza http://www.semidiscienza.it Fri, 13 Dec 2024 17:15:25 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.8.10 http://www.semidiscienza.it/wp-content/uploads/2019/01/cropped-Semi-di-scienza-1-32x32.png Economia – Semi di Scienza http://www.semidiscienza.it 32 32 Trattato globale sulla plastica, INC-5 chiude senza accordo: si va al 2025 http://www.semidiscienza.it/2024/12/04/trattato-globale-sulla-plastica-inc-5-chiude-senza-accordo-si-va-al-2025/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=trattato-globale-sulla-plastica-inc-5-chiude-senza-accordo-si-va-al-2025 http://www.semidiscienza.it/2024/12/04/trattato-globale-sulla-plastica-inc-5-chiude-senza-accordo-si-va-al-2025/#respond Wed, 04 Dec 2024 11:14:00 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=3013 di Tosca Ballerini, articolo già pubblicato su Materia Rinnovabile: https://www.renewablematter.eu/trattato-globale-sulla-plastica-inc-5-chiude-senza-accordo-rimandato-2025

Il quinto ciclo di negoziati (INC-5) per uno strumento internazionale giuridicamente vincolante (Internationally Legally Binding Instrument, ILBI) contro l’inquinamento da plastica si è chiuso a Busan, in Corea del Sud, alle 2:50 del mattino di lunedì 2 dicembre senza un accordo. Il Comitato intergovernativo di negoziazione ha deciso di riunirsi nuovamente in una sessione aggiuntiva nel 2025 nella quale le negoziazioni riprenderanno sulla base di un documento informale prodotto dal Presidente di INC, Vayas Valdivieso.

Secondo l’agenda dei lavori, i delegati avrebbero dovuto lavorare in quattro gruppi di contatto per arrivare a produrre una bozza sostanziale dell’ILBI entro venerdì 29 novembre. Questo avrebbe dato il tempo al Legally Drafting Group di esaminare la bozza dell’accordo prima della sua adozione da parte dei negoziatori entro domenica 1° dicembre. I lavori però sono andati a rilento e i negoziatori non sono riusciti a produrre nessun testo. Tre i punti sui quali c’è stato il maggior disaccordo: prodotti e sostanze chimiche problematiche utilizzate nei prodotti di plastica (bozza dell’articolo 3 nel terzo non paper di Vayas Valdivieso); produzione (supply, bozza dell’articolo 6); finanza, compresa l’istituzione di un meccanismo finanziario (bozza dell’articolo 11).

Trattato globale sulla plastica, i punti critici

Per le bozze dell’articolo 3 e dell’articolo 6, le opinioni dei negoziatori andavano dall’esclusione totale della questione dall’ILBI (posizione mantenuta dai Like-minded countries e dal gruppo arabo), alle proposte di elenchi dei prodotti e delle sostanze chimiche più dannose da vietare nei prodotti di plastica e dell’introduzione di un obiettivo globale per ridurre la produzione di polimeri plastici primari a livelli sostenibili e promuovere l’economia circolare, adottando misure lungo l’intero ciclo di vita della plastica (posizione mantenuta dai paesi della High Ambition Coalition e da altri “stati volenterosi).

Sulla bozza dell’articolo 11, le opinioni condivise includevano la necessità di un meccanismo finanziario dedicato e autonomo, finanziato principalmente dai paesi sviluppati che avrebbe facilitato i paesi in via di sviluppo nell’attuazione del futuro trattato. Includevano anche un meccanismo finanziario, finanziato da tutte le parti e da fonti aggiuntive, tra cui l’industria.

Non si è trovato un accordo neanche su alcuni argomenti che sembravano essere meno divisivi, come la gestione dei rifiuti. Durante la riunione plenaria di mercoledì 27 novembre, la maggior parte dei negoziatori ha espresso frustrazione riguardo le tattiche dilatorie messe in atto dal gruppo dei Like-minded countries. “Questa situazione si sta trasformando in una mini COP sul clima”, ha detto il giorno dopo un delegato sottolineando le “tattiche dilatorie simili” a quelle osservate durante i negoziati sul clima. Il riferimento è all’utilizzazione del consenso per bloccare ogni progresso. Ad apertura dei lavori, il 25 novembre, India, Federazione Russa, Kazakistan, Bahrein, Egitto, Arabia Saudita per il gruppo arabo e Kuwaitper i Like-mindedcountries avevano ribadito che tutte le decisioni su questioni sostanziali avrebbero dovuto essere prese tramite consenso e che la regola procedurale 38.1 (che prevede il ricorso al voto qualora non sia trovi il consenso) non avrebbe dovuto essere invocata.

Gli sforzi di Vayas Valdivieso e le consultazioni a porte chiuse

Per cercare di superare lo stallo nelle negoziazioni, venerdì 29 novembre Vayas Valdisvieso ha interrotto i lavori dei gruppi di contatto e intrapreso delle consultazioni informali a porte chiuse. Sulla base delle opinioni raccolte dai delegati dei vari paesi, Vayas Valdivieso ha prodotto un nuovo documento informale (il suo  quarto non-paper) che è stato fatto circolare nella sera. Secondo gli osservatori, la decisione del presidente di INC di produrre una nuova bozza del testo dell’accordo è stata una mossa coraggiosa e “potenzialmente uno dei momenti più significativi della trattativa”. In plenaria l’Arabia Saudita aveva infatti detto che il rischio maggiore sarebbe stato quello di “vedersi paracadutare un testo dall’alto”.

Le consultazioni informali a porte chiuse sono continuate anche sabato 30, quando hanno cominciato a circolare voci di un INC-5.2 o di un’estensione della riunione in corso fino a martedì 3 dicembre. Nel pomeriggio di domenica 1° dicembre Vayas Valdivieso ha reso pubblica una quinta versione del suodocumento informale (Chair’s Text). Nella plenaria finale di domenica sera, i delegati hanno deciso di aggiornare la seduta a una prossima riunione nel 2025, e alla 1:13 del mattino di lunedì 2 dicembre hanno accettato il nuovo testo del presidente di INC come base per le negoziazioni.

“Sebbene INC-5 abbia visto progressi sul testo, non è riuscito ad affrontare i problemi politici e procedurali di fondo che hanno rovinato questo processo fin dall’inizio”, ha detto a Materia Rinnovabile Magnus Løvold della Norwegian Academy of International Law.“Penso che sempre più paesi vedano che alcuni dei paesi coinvolti, come l’Arabia Saudita e la Russia, stanno negoziando in malafede e non accetteranno mai un trattato, per non parlare di un trattato efficace. Affinché INC-5.2 abbia successo, i paesi ambiziosi devono lasciarsi alle spalle gli spoiler e concludere un trattato senza di loro. Questo è chiaramente l’unico modo. Le dichiarazioni congiunte rilasciate in plenaria da Ruanda e Messico mostrano che c’è una maggioranza progressista che potrebbe essere disposta a farlo.”

Ruanda, Messico e Panama alla guida dei paesi volenterosi

Nella plenaria di domenica sera, Juliet Kabera, negoziatrice del Ruanda (paese co-chair assieme alla Norvegia della High Ambition Coalition), parlando a nome di 85 stati ha espresso “forti preoccupazioni circa le continue richieste da parte di un piccolo gruppo minoritario di paesi di rimuovere dal testo le disposizioni vincolanti che sono indispensabili affinché il trattato sia efficace”. Alla fine del suo intervento ha chiesto ai presenti in sala di alzarsi in piedi se fossero stati d’accordo con un trattato globale forte. Quasi tutta la sala si è alzata in piedi, un segno molto chiaro di ambizione. Dopo di lei, Camila Zepeda del Messico ha iniziato il suo intervento leggendo i nomi dei 95 paesi che hanno sottoscritto una disposizione “legalmente vincolante” per “eliminare gradualmente” i prodotti di plastica più dannosi e le sostanze chimiche preoccupanti utilizzate nella loro produzione.

In una conferenza stampa per gli stati membri che si era tenuta prima della assemblea plenaria, gli stati in via di sviluppo e i membri dell’UE insieme hanno dato una “dimostrazione eroica di forza”. Juan Carlos Monterrey di Panama aveva detto: “Questa non è un’esercitazione, questa è una lotta per la sopravvivenza. La plastica non è comoda, è un’arma di distruzione di massa. Se non otteniamo un ambizioso trattato di Busan sarà un tradimento… la storia non ci perdonerà”. Secondo il Center for International Environmental Law (CIEL), anche l’UE ha svolto un “ruolo cruciale”: Anthony Agotha ​​(UE) e Olga Givernet (Francia) hanno entrambi rilasciato dichiarazioni a favore della produzione e di altre misure ambiziose.

“Quello che abbiamo visto a Busan è stata un’arma del consenso da parte di un piccolo numero di paesi per bloccare i progressi e indebolire i negoziati”,ha detto David Azoulay, Direttore di Environmental Health a CIEL. “Dobbiamo resistere all’idea che questo processo sia destinato a rimanere paralizzato dall’ostruzione. Alla prossima sessione, i paesi devono chiarire una volta per tutte che sono pronti a usare tutte le opzioni, incluso il voto, per realizzare il trattato che continuano a sostenere sia necessario”.

Molti lobbysti ai negoziati per il Trattato globale sulla plastica

Nel secondo giorno di negoziazioni i rappresentanti della società civile hanno denunciato l’organizzazione di INC-5 per le disposizioni che limitavano gravemente la partecipazione ai negoziati. Nonostante i quasi 1.900 partecipanti all’INC, i lavori dei gruppi di contatto erano stati tenuti in stanze con solo 60 posti assegnati ai partecipanti non membri, una cifra che ammonta al 3% dei partecipanti registrati. La situazione è stata poi risolta nei giorni successivi.

Sempre martedì 26 novembre, un’analisi di CIEL ha mostrato che 220 lobbisti dell’industria chimica e dei combustibili fossili erano registrati per partecipare all’INC-5. Presi insieme, sarebbero il singolo paese più grande. Per fare un paragone: la Repubblica di Corea, paese ospitante, aveva 140 rappresentanti, le delegazioni dell’Unione Europea e di tutti i suoi stati membri insieme 191, mentre gli scienziati indipendenti della Scientists’ Coalition for an Effective Plastics Treaty erano 70.

“Come scienziati indipendenti, siamo preoccupati che la scienza sia stata usata impropriamente per creare confusione e ritardi da parte di alcuni stati membri”, ha detto Trisia Farrelly, professoressa e membro onorario presso la Massey University e scienziata senior presso il Cawthron Institute (Nuova Zelanda) in un comunicato stampa della Scientists’ Coalition rilasciato dopo la chiusura di INC-5. “Ciò sottolinea ulteriormente l’importanza di una scienza e di strategie indipendenti e solide per impedire che i conflitti di interesse facciano deragliare il futuro trattato.”

In una conferenza stampa dell’International Indigenous Peoples’ Forum on Plastics tenutasi sabato 30 novembre, i rappresentanti indigeni hanno detto, in riferimento alle consultazioni informali a porte chiuse: “Siamo stati messi a tacere e sottovalutati strategicamente” in queste negoziazioni. “Come si può parlare di una giusta transizione, quando non ci viene dato uno spazio al tavolo?”

Immagine: Camila Isabel Zepeda Lizama, Messico, a nome di 95 paesi. Foto: IISD/ENB – Kiara Worth

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Trattato globale sulla plastica: meglio un accordo debole o nessun accordo? http://www.semidiscienza.it/2024/12/01/trattato-globale-sulla-plastica-meglio-un-accordo-debole-o-nessun-accordo/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=trattato-globale-sulla-plastica-meglio-un-accordo-debole-o-nessun-accordo http://www.semidiscienza.it/2024/12/01/trattato-globale-sulla-plastica-meglio-un-accordo-debole-o-nessun-accordo/#respond Sun, 01 Dec 2024 16:23:31 +0000 http://www.semidiscienza.it/?p=3007 di Tosca Ballerini, articolo già pubblicato su Materia Rinnovabile: https://www.renewablematter.eu/trattato-globale-sulla-plastica-meglio-un-accordo-debole-o-nessun-accordo

Inizia oggi, 25 novembre 2024, a Busan, Corea del Sud, il quinto e ultimo ciclo di negoziati (INC-5) per un trattato globale sulla plastica che dovrebbe concludersi il 1° dicembre. Sono passati due anni e mezzo dallo storico accordo del 2 marzo 2022 con il quale la quinta Assemblea dell’ambiente delle Nazioni Unite (UNEA-5.2) ha richiesto al direttore esecutivo del Programma per l’ambiente (UNEP) delle Nazioni Unite di convocare un Comitato intergovernativo di negoziazione (INC) per sviluppare uno strumento giuridicamente vincolante che affronti l’intero ciclo di vita della plastica entro il 2024. Ma i punti di disaccordo tra i paesi continuano a essere più numerosi dei punti di convergenza e i rimanenti sette giorni di negoziati sembrano essere insufficienti per concludere un accordo efficace.

La posta in gioco è sapere se prevarranno gli obiettivi ambientali e la tutela della salute umana, tramite un accordo che affronti la proliferazione della plastica in tutte le fasi dalla produzione allo smaltimento come vorrebbe la High Ambition Coalition To End Plastic Pollution, oppure gli interessi economici delle industrie petrolchimiche e dei paesi produttori di plastica (autodefinitesi i Like-minded Countries) che si oppongono a un trattato che includa obiettivi ambiziosi che limiterebbero o ridurrebbero la produzione primaria di plastica e vorrebbero ridurre lo scopo dell’accordo alla gestione dei rifiuti. Nel mezzo tra i due gruppi si trovano gli Stati Uniti, che nel giugno 2024 avevano annunciato il loro sostegno alla riduzione della produzione di plastica, ma hanno fatto marcia indietro dopo le recenti elezioni americane.

Like-minded Countries, guidati da Arabia Saudita, Iran e Russia, hanno messo in atto tattiche per fare deragliare le negoziazioni in tutti i precedenti cicli di negoziati (INC-1 a Punta del Este; INC-2 a Parigi; INC-3 a Nairobi; INC-4 a Ottawa) e di fatto si è arrivati a INC-5 con un testo di negoziazione ufficiale (la cosiddetta Bozza Zero Rivista) che non può essere usato per le negoziazioni perché eccessivamente lungo e incomprensibile e con un documento informale proposto dal presidente dell’INC, l’ambasciatore Luis Vayas Valdivieso dell’Ecuador, in cui non è presente nessuna opzione relativamente a obblighi di riduzione della produzione di plastica primaria. 

I 67 paesi della High Ambition Coalition hanno riaffermato in una dichiarazione ministeriale congiunta in vista di INC-5 la loro volontà di concludere un accordo entro la fine del 2024, e così hanno fatto i leader delle principali economie del mondo con la dichiarazione del G20 di Rio de Janeiro. Ma tra gli osservatori c’è il dubbio che concludere un accordo che non sia ambizioso potrebbe essere controproduttivo.

Il pericolo di un approccio start & strengthen

Con l’avvicinarsi dei negoziati finali sul trattato sulla plastica, c’è una spinta per fissare obiettivi globali”, ha detto Hélionor de Anzizu, senior attorney al Center for International Environmental Law (CIEL). “Tuttavia, senza obblighi nazionali vincolanti, il trattato rischia di diventare un accordo stile Parigi. Basarsi esclusivamente su obiettivi generali può portare ad azioni frammentate, sfide commerciali e attriti tra i mercati ed è probabile che ritardi un impatto significativo.”

Nell’ultimo periodo, infatti, si è parlato di adottare un approccio start & strengthen (iniziare e poi rafforzare), che però secondo CIEL rischia di essere problematico in quanto spesso fissa degli obiettivi globali ma rinvia le azioni necessarie per raggiungerli al futuro, senza alcuna garanzia che queste azioni di rafforzamento avvengano poi effettivamente. Come esempio del fallimento di questo approccio, CIEL cita la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici e l’Accordo di Parigi. Gli stati lasciati ad agire per conto proprio hanno creato un divario sostanziale tra lo scopo dell’accordo (limitare il riscaldamento terrestre entro i 2°C, e idealmente entro gli 1,5°C) e l’azione nazionale (i contributi determinati a livello nazionale NDCs che si sono rivelati insufficienti) che ha fatto sì che secondo le previsioni le temperature globali aumenteranno di 2,5°C/3,7°C entro il 2100.

“Una volta concordato il testo di un trattato, le decisioni della Conferenza delle Parti (COP) non hanno il potere di creare obblighi oltre il testo del trattato”, avverte CIEL. Infatti “le decisioni COP che possono creare nuovi obblighi sono gli emendamenti al testo del trattato o un nuovo protocollo, entrambi i quali necessitano la ratifica delle parti per entrare in vigore e spesso richiedono anni, se non decenni”.

Meglio una “coalizione dei volenterosi” al di fuori del processo negoziale dell’UNEP?

“Molti paesi sono determinati a ottenere un trattato veramente ambizioso, il che significa che deve includere un limite alla produzione di plastica”, spiega a Materia Rinnovabile Neil Tangri, direttore scientifico e politico della Global Alliance for Incinerator Alternatives GAIA. “Se i paesi spoiler frustrassero questo sforzo all’INC-5, ciò potrebbe causare un collasso dei negoziati. Un’altra possibilità è quella di abbandonare completamente [il processo di negoziazione all’interno dell’] UNEP, costringendo i paesi che vogliono risolvere il problema a negoziare con coloro che stanno cercando di vanificare i loro sforzi. I negoziati all’interno di una coalizione dei volenterosi sarebbero più rapidi, più produttivi e, in definitiva, più efficaci.”

Neil Tangri

Gli elementi chiave di un trattato efficace

“Un trattato efficace sulla plastica richiede l’attuazione di politiche lungo l’intero ciclo di vita della plastica”, ha detto a Materia Rinnovabile Tara Olsen, ricercatrice nella sezione Produzione, mercati e politica dell’Università di Copenaghen e membro della Scientists’ Coalition for an Effective Plastics Treaty. “Include l’attuazione di misure a monte per ridurre la produzione primaria di plastica (PPP). Ciò è particolarmente importante dato che secondo le previsioni dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) la produzione, l’uso e i rifiuti generati aumenteranno del 70% entro il 2040 rispetto al 2020. Riconoscendo le sfide scientifiche nel quantificare un obiettivo fisso di PPP a lungo termine, come la potenziale sottostima dei reali costi ambientali e socioeconomici, sottolineiamo l’importanza che l’obiettivo rimanga scientificamente informato e adattivo nel tempo per allinearsi con le più recenti scoperte scientifiche.”

Olsen è una dei quasi mille scienziati indipendenti che hanno firmato la Scientists’ Declaration for the Global Plastics Treaty, la cui versione aggiornata per INC-5 è stata resa nota sabato 23 novembre, chiedendo ai membri di INC di concordare un trattato globale ambizioso basato su prove scientifiche per porre fine all’inquinamento da plastica entro il 2040.

Tara Olsen

Secondo Andrés del Castillo, Senior Attorney a CIEL, e Lindsey Jurca Durland, Campaign Specialist a CIEL, oltre a un limite alla produzione di plastica con obiettivi nazionali obbligatori, gli elementi essenziali per un trattato sulla plastica efficace sono il divieto per sostanze chimiche tossiche preoccupanti, misure commerciali rivolte ai paesi che non ratificheranno l’accordo, meccanismi di governance che evitano di bloccare il processo a causa del consenso, meccanismi finanziari innovativi. I due esperti avvertono che durante le negoziazioni sarà necessario vigilare sulle tattiche di ritardo, l’influenza dell’industria (a INC-3 il numero dei lobbisti era superiore a quello dei delegati del G7, a INC-4 a quello dei delegati dell’UE e di 87 paesi messi insieme), il pericolo di compromessi al ribasso che sacrificano l’ambizione del trattato in nome della tempistica, oltre all’influenza del nuovo presidente degli Stati Uniti sul trattato.

La questione di quale sarebbe il migliore strumento legale internazionale per combattere l’inquinamento da plastica si è posta sin dall’inizio delle negoziazioni. Meglio concludere un trattato globale senza obblighi vincolanti (tipo Accordo di Parigi), oppure un trattato ambizioso con una massa critica di “stati volenterosi”, regole comuni e impegni vincolanti (cioè una convenzione specifica, come ad esempio la Convenzione di Minamata sul mercurio)? Come analizzato dal WWF “nel lungo periodo è solitamente più facile aumentare la partecipazione che modificare il testo di un trattato”.

Tramite il ricorso al consenso e al diritto di veto, nelle COP sul clima e nell’Accordo di Parigi gli interessi legati all’economia dei combustibili fossili hanno bloccato le azioni per contenere il riscaldamento terrestre. Questi interessi hanno prevalso ancora una volta nella COP29 che si è conclusa ieri, domenica 24 novembre, a Baku, in Azerbaijan. Il 99% della plastica è prodotto a partire da fonti fossili e gli stessi stati che hanno bloccato l’azione sul clima hanno lavorato sin dall’inizio per bloccare lo sviluppo di un trattato efficace contro l’inquinamento da plastica. Resta da vedere quali saranno durante INC-5 le mosse della “coalizione dei volenterosi”. 

Immagine: Mumtahina Tanni, Pexels

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Criptovalute e sostenibilità: un connubio possibile? http://www.semidiscienza.it/2022/10/17/criptovalute-e-sostenibilita-un-connubio-possibile/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=criptovalute-e-sostenibilita-un-connubio-possibile http://www.semidiscienza.it/2022/10/17/criptovalute-e-sostenibilita-un-connubio-possibile/#respond Mon, 17 Oct 2022 20:40:42 +0000 http://www.semidiscienza.it/?p=1949 Ph. di André François McKenzie su Unsplash

Di Maila Agostini

Le criptovalute sono valute visualizzabili solo conoscendo un codice di accesso; non esistono in forma fisica, quindi non è possibile trovare in circolazione, per esempio, bitcoin in formato cartaceo o metallico. Questo tipo di “moneta” non ha corso legale quasi da nessuna parte del mondo; l’accettazione come metodo di pagamento è quindi su base volontaria. Tuttavia, qualche stato come l’Uruguay e il Venezuela hanno deciso di sperimentare l’utilizzo di valuta virtuale nei propri paesi.
Le criptovalute hanno alcune caratteristiche particolari:

  • un protocollo, cioè un codice informatico che specifica il modo in cui i partecipanti possono effettuare le transazioni;
  • un “libro mastro” (blockchain) che conserva la storia della transazioni;
  • una rete decentralizzata di partecipanti che aggiornano, conservano e consultano il libro mastro secondo le regole del protocollo.

Sono soggette a fluttuazioni molto ampie, quindi sono poco efficienti come mezzo di pagamento, in quanto risulta difficile prezzare beni e servizi. Tuttavia, visto che il numero di criptovalute che possono essere generate è limitato, potrebbero assolvere, in futuro, a una funzione di scambio.

Si tratta di monete virtuali decentralizzate, ovvero che non rientrano sotto il controllo di istituti finanziari o governi; essendo immateriali, sembrano “green”, ma sono davvero così sostenibili?
La maggior parte delle persone, pur avendo sentito parlare di criptovalute e blockchain, ha ancora difficoltà a capire come funzionano queste tecnologie. Di cosa stiamo parlando esattamente? Si tratta di una risorsa finanziaria digitale decentralizzata; proprio per questo motivo, le loro fluttuazioni in borsa sono più drastiche rispetto ai tradizionali prodotti economici. La più nota di queste monete digitali è il Bitcoin, le cui transazioni vengono registrate sulla blockchain, una specie di registro digitale in cui le voci sono concatenate in ordine cronologico, che rappresenta il “libro mastro” in cui vengono registrate le operazioni. Le monete virtuali possono essere utilizzate come forma di pagamento per acquisti online, essere scambiate con valute reali oppure essere trattate come un prodotto di investimento, quindi conservate e scambiate quando il mercato è più favorevole.
Ma una moneta virtuale non nasce dal nulla; ha bisogno di essere creata tramite una tecnica chiamata mining.


Mining Farm e alternative


Abbiamo detto che la blockchain rappresenta il libro mastro delle valute digitali; perché tutte le transazioni vengano controllate, i nodi, che rappresentano decine di migliaia di computer, si collegano per supervisionare il funzionamento della catena digitale. Devono quindi dare il via libera alla transazione, verificando che sia autentica, e vengono “pagati” per questo lavoro di controllo proprio in criptovaluta. Tuttavia, non tutti i computer che si collegano approvano la transazione, masoltanto il primo che riesce a risolvere un complicato algoritmo. Si genera quindi una “gara”, in cui migliaia di computer competono per trovare la soluzione.

Siamo al punto caldo; le critiche principali che vengono mosse a queste tecnologie sono dovute alle enormi emissioni di anidride carbonica delle mining farm. Le macchine, lavorando in competizione per la stessa transazione, si azionano simultaneamente; questo vuol dire che si consumano quantità elevatissime di elettricità che, ovviamente, produce gas serra.

Alcune valute sono più sostenibili di altre, anche solo per il minore numero di transazioni che vengono effettuate con quella moneta. Ci sono quindi più fattori da considerare: il numero di transazioni, gli algoritmi e i sistemi utilizzati. Non tutte le criptomonete utilizzano il metodo proof of work; alcune si basano su tecnologie proof of storage, che invece di riservare capacità di calcolo riserva spazio di archiviazione, oppure block lattice, un’infrastruttura simile a una catena di blocchi in cui ogni utente è proprietario della sua catena e quindi l’intera rete non viene aggiornata contemporaneamente; si può altrimenti utilizzare il sistema proof of stake, che seleziona casualmente alcuni nodi della blockchain. Questi metodi sono molto più ecologici rispetto al proof of work.

Il meccanismo proof of stake richiede meno dell’1% dell’energia utilizzata per minare Bitcoin; questo significa che è possibile aumentare il numero di transazioni gestite di quasi un ordine di grandezza. Un cambiamento radicale si avrà con il passaggio di Ethereum al sistema proof of stake. Essendo questa valuta la seconda per importanza, il numero di operazioni gestite dalla stessa potrebbe aumentare, mentre diminuiscono i consumi necessari per la gestione.
Se si trattasse soltanto di monete scambiate a fini speculativi, forse il problema non sarebbe così grande; in realtà, alcune di queste valute virtuali consentono l’utilizzo della tecnologia blockchain per diverse applicazioni. Cardano, per esempio, su richiesta del governo etiope, tiene traccia delle performance degli studenti, per evitare falsificazioni di certificati scolastici, piaga diffusa nel paese. Altre, invece, come Ethereum, consentono di autenticare le proprie opere d’arte digitali, permettendo agli artisti di avere un compenso per il loro lavoro. 


Verso la svolta green


Risulta quindi evidente che i big del settore tecnologico abbiano un grande peso nella svolta green delle criptomonete. Questo ha portato parte dell’industria legata al mining, a lavorare a un accordo sul clima, in modo da limitare il costo energetico dei nodi coinvolti nelle operazioni (basti pensare che, da solo, il Bitcoin consuma annualmente la stessa energia di Hong Kong, mentre Ethereum consuma circa quanto la Lituania). Questa operazione di auto-regolamentazione si impone due tappe principali: la prima, da raggiungere entro il 2030, vede tutte le operazioni sostenute da fonti rinnovabili; la seconda tappa, fissata per il 2040, mira a raggiungere la neutralità climatica con emissioni zero. Questo significa che si dovrà trovare anche uno standard comune per misurare le emissioni dovute alle valute digitali.


Sarà un compito arduo il coinvolgere tutti gli attori di questo mercato, proprio perché la maggior parte delle criptomonete è pensata per essere un sistema decentralizzato e senza supervisione. Inoltre, momentaneamente, non si hanno obiettivi concreti, se non i due principali, la sostenibilità e l’impatto zero, fissati per il 2030 e il 2040. Probabilmente questo è dovuto anche al fatto che si tratta di un settore innovativo, in cui si ha la necessità di trovare nuove strade. La difficile sfida per rendere green le criptovalute, guidata interamente dal settore privato, è appena all’inizio.


Sitografia:
www.cryptoclimate.org
www.theverge.com/
www.greencluster.it

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Il tesoro nascosto http://www.semidiscienza.it/2020/01/16/il-tesoro-nascosto/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=il-tesoro-nascosto http://www.semidiscienza.it/2020/01/16/il-tesoro-nascosto/#respond Thu, 16 Jan 2020 18:01:07 +0000 http://www.semidiscienza.it/?p=799 Cinquant’anni fa lo sfruttamento massiccio dei combustibili fossili ha rivoluzionato la demografia, l’economia e l’agricoltura dell’intero pianeta, mutando radicalmente il nostro modo di vivere. Ora per poter contenere il riscaldamento globale entro dei limiti accettabili dobbiamo riorganizzarci per abbandonare molto rapidamente l’utilizzo di questa risorsa. Quali sforzi dovremo fare per riuscire a compiere questa transizione che rimette in discussione tutto, anche il metodo con cui oggi ci procuriamo del cibo?

Una grande vincita alla lotteria ha l’effetto di cambiarci la vita, e per la stragrande maggioranza delle persone l’adattamento alle nuove abitudini non costituisce assolutamente un problema; per contro, seguitando a spendere e spandere, i soldi piovuti dal cielo a un certo punto finiscono, e le difficoltà nel tornare alla condizione precedente possono essere notevoli. Quando Edwin Drake nel 1859 rese operativo in Pennsylvania il primo pozzo di petrolio della storia, non era consapevole di aver dato il via allo sfruttamento del più enorme salvadanaio a cui la nostra specie abbia avuto occasione di attingere dal momento della sua comparsa sul Pianeta. Per raccontare l’antefatto di questa storia dobbiamo tornare indietro di qualche centinaio di milioni di anni: a seguito di una complessa somma di circostanze che non è detto possa ripetersi, in quel tempo una parte dell’energia proveniente dal Sole ha cominciato ad accumularsi sottoterra, creando dei grandi giacimenti di carbonio che sono le riserve di combustibili fossili dalle quali oggi stiamo attingendo a piene mani. Molto tempo dopo, la specie Homo Sapiens ha scoperto l’esistenza di questi serbatoi di carbonio, ma non ha dedicato a loro una grande attenzione, almeno fino al momento in cui è stata perfezionata un’importante invenzione capace di trasformare una sorgente di energia in un lavoro meccanico: quanto più combustibile viene fornito a questo particolare dispositivo chiamato “motore”, tanto maggiore è il lavoro meccanico che esso è in grado di produrre. La possibilità di far lavorare incessantemente una macchina ha dato il via ad una nuova epoca chiamata Rivoluzione Industriale, che inizialmente si è fondata sullo sfruttamento del carbone. Successivamente è arrivato il petrolio. Cento anni dopo la prima trivellazione di Drake, l’oro nero entrerà profondamente e definitivamente nelle nostre vite: la società, la cultura, le abitudini subiranno la più grande e rapida trasformazione che la storia dell’uomo abbia mai conosciuto.

Il primo grande cambiamento

Con poco più di 50 dollari oggi si compera un barile di petrolio che contiene l’energia di 25.000 ore di lavoro umane. Nei primi decenni del secolo scorso la quotazione del barile era molto più bassa, mentre il valore più alto che al momento sia stato raggiunto è di 147 dollari nel 2008. Per quanto questo massimo storico possa sembrare elevato per il mercato, è un prezzo assolutamente irrisorio se paragonato con le cifre che dovremmo sborsare per pagare degli esseri umani che vadano a svolgere l’identico lavoro. Nessun altra fonte di energia attualmente conosciuta può reggere il confronto con questa risorsa che ad un costo tuttora bassissimo ci permette di muovere aerei, navi e potenti automobili, costruire infrastrutture e grattacieli, ed estrarre i minerali che ci servono per produrre gli oggetti di ogni tipo che utilizziamo nel nostro quotidiano. È abbastanza ovvio come lo sfruttamento intensivo degli idrocarburi abbia ottenuto di far decollare l’economia planetaria. Nei primissimi anni del dopoguerra il petrolio è entrato anche nell’agricoltura, secondo tre modalità diverse: con la meccanizzazione, che ha visto la sostituzione del lavoro umano ed animale con quello generato dalle macchine, con la fertilizzazione chimica, che in luogo del potenziamento delle capacità organiche del suolo ha portato al suo arricchimento con prodotti introdotti dall’esterno, e infine con la battaglia ai parassiti, che ha iniziato ad essere condotta attraverso l’uso massiccio di pesticidi. Queste tre componenti, realizzate attraverso un input energetico molto alto per ciascuna unità di suolo lavorato, hanno fatto aumentare la produzione agricola di 2,5 volte rispetto alle modalità di coltivazione tradizionale. Grazie a questo incremento è stato possibile nutrire una popolazione che in seguito al boom economico è aumentata di più di 7 volte rispetto a quella esistente all’inizio della Rivoluzione Industriale. Il rovescio della medaglia è che ogni singola caloria proveniente dal cibo che si consuma oggi nei paesi sviluppati necessita di 10 calorie di petrolio per essere prodotta. Per il cibo che mangiamo e per l’economia che ci consente di comperarlo, siamo diventati completamente dipendenti da una risorsa non rinnovabile che sta progressivamente declinando, e che indipendendentemente dalla sua disponibilità, abbiamo scoperto strada facendo di non poter più utilizzare, per non peggiorare ulteriormente un cambiamento climatico che è stato prodotto proprio da questo massiccio sfruttamento.

Energia netta in diminuzione

La nostra attuale civiltà si fonda sul consumo di grandissime quantità di energia che devono essere disponibili a bassissimo costo. Quando nel 2008 le fonti convenzionali di petrolio – ovvero quelle estratte con gli stessi metodi di Drake, sebbene più evoluti – hanno raggiunto il picco di produzione e iniziato la loro fase di declino, il prezzo del barile ha raggiunto il massimo storico dei 147 dollari. Il mercato non è stato in grado di reggere un prezzo così alto: l’economia si è arrestata, la diminuzione della domanda ha fatto crollare la quotazione, che poi lentamente ha cominciato a risalire. Da quel momento in poi il nostro sistema produttivo ha cominciato ad incepparsi, e non è più riuscito a tornare alla condizione precedente. Per comprendere quale meccanismo stia dietro a tutto questo occorre introdurre il concetto di energia netta. Il primo pozzo, entrato in attività nel 1859 in Pennsylvania, ha richiesto una trivellazione di soli 19 metri: il petrolio ha cominciato a zampillare fuori da solo, con forza. Oggi per reperire nuovi giacimenti dobbiamo fare lunghe ricerche, e quando riusciamo a trovarli siamo costretti a trivellare nel sottosuolo e nel mare, scendendo per diversi chilometri: otteniamo un prodotto che non ha una grande qualità, e richiede dei processi di raffinazione abbastanza complessi. In pratica, per poter ricavare dell’energia occorre spenderne dell’altra, e il punto cruciale è il bilancio energetico finale. Nel 1930, con il contributo energetico di un barile di petrolio riuscivamo ad estrarne altri 100, per cui il processo risultava molto conveniente. Fino al 1970 con l’investimento di un barile si riusciva ad estrarne 23. Oggi siamo intorno a 15, ma la tenuta di questo valore dipende dalla funzionalità dei grandi giacimenti trovati nel secolo scorso, che progressivamente stanno andando verso l’esaurimento. Per sostenere le nostre necessità, negli ultimi anni abbiamo cominciato ad attingere alle fonti non convenzionali (sabbie bituminose, petrolio da scisti ottenuto con fratturazione idraulica), ma queste metodologie, oltre a generare enormi danni collaterali in termini di capitale naturale devastato, di consumi ed inquinamenti chimici di acqua, e addirittura di aumento delle probabilità di provocare terremoti, hanno un bilancio energetico molto sfavorevole, che non sorpassa l’impiego di un barile di petrolio per riuscire ad estrarne due, al massimo tre. È certamente vero che sul Pianeta esistono ancora grandi riserve di combustibili fossili, ma quante di queste possono essere sfruttate riuscendo ad ottenere un bilancio energetico che sia sufficientemente in attivo?

Il mutamento climatico

Pensiamo ad un equilibrista che sia camminando su un filo: per restare in equilibrio, costui deve bilanciare molto attentamente la distribuzione dei suoi pesi. I giacimenti di carbonio che noi abbiamo trovato sottoterra hanno impiegato alcune centinaia di milioni di anni per accumularsi; in circa cento anni noi abbiamo ritrasferito in superficie la metà del carbonio che stava sepolto: questo repentino spostamento di materia, avvenuto in un tempo brevissimo rispetto ai tempi necessari per la sua formazione, ha agito sulla concentrazione dell’anidride carbonica presente in atmosfera, provocando uno sbilanciamento degli equilibri climatici. Dato che in natura tutto è collegato, l’aumento di temperatura ha innescato dei processi di fusione dei ghiacci e dei ghiacciai, un aumento del livello dei mari, un aumento della loro acidità dovuto al fatto che gli oceani stanno cercando di contobilanciare l’eccesso di carbonio presente in atmosfera, e un cambiamento delle correnti marine dovuto alle differenze di salinità e di temperatura che si stanno creando. Il risultato è che il clima relativamente stabile che aveva permesso il fiorire della nostra civiltà ha iniziato rapidamente a modificarsi: andando a ritroso nel tempo, la concentrazione di anidride carbonica che oggi abbiamo raggiunto (400 parti per milione, contro le 280 dell’epoca preindustriale) è riscontrabile soltanto nel Pliocene, tra 3 e 5 milioni di anni fa, quando la Terra era più calda di 2-3 gradi e i mari erano più alti di 25 metri.

I meccanismi di feedback

Esistono dei meccanismi a catena che iniziano ad attivarsi quando una perturbazione ne provoca delle altre, che a loro volta entrano in gioco e vanno ad amplificare il fenomeno. La fusione dei ghiacci artici per esempio causa nella regione un maggiore assorbimento di calore perchè si riduce l’energia che viene riflessa dalla superficie bianca della neve: l’accumulo di calore provoca la fusione di quantità di ghiaccio sempre maggiori, che scomparendo contribuiscono ad accelerare il fenomeno. Un altro effetto di feedback positivo particolarmente temibile è la liberazione di metano rilasciato dal suolo nelle aree ghiacciate della Siberia, che iniziano a scongelarsi a causa dell’aumento di temperatura: ai fini dell’effetto serra questo gas è parecchie decine di volte più potente dell’anidride carbonica, e finendo in atmosfera provoca degli aumenti di temperatura che a loro volta fanno liberare dell’ulteriore metano. Con l’incremento medio, già avvenuto, di 0,85°C rispetto ai valori dell’epoca preindustriale, si sono avviati questi ed altri meccanismi a catena: se vogliamo contenerne l’azione, evitando che il clima vada completamente fuori controllo, non dobbiamo superare la soglia molto pericolosa dei 2°C di aumento. Quanto tempo ci resta per agire, e quali sono i margini di manovra che abbiamo?

Ciò che dobbiamo e non dobbiamo fare

Sottoterra giacciono circa 4000 gigatonnellate di carbonio imprigionate in riserve di combustibili fossili di cui soltanto un terzo potrebbe essere economicamente conveniente da estrarre. Se vogliamo avere una probabilità su 3 di stare sotto la soglia dei 2°C di aumento (33% di riuscita), dobbiamo lasciare sottoterra circa due terzi delle risorse che sarebbero potenzialmente estraibili. Per avere delle probabilità maggiori (una su due, corrispondente al 50% di riuscita, oppure due su tre, corrispondente al 66% di riuscita), devono restare sottoterra delle quantità di idrocarburi progressivamente maggiori. A questo contenimento della quantità totale di combustibili fossili che possiamo utilizzare dobbiamo affiancare delle vigorose politiche di efficientamento che entro il 2050 portino ad una riduzione delle emissioni dal 40 al 70% rispetto ai valori del 2010, arrivando al sostanziale azzeramento entro la fine del secolo. Considerando che la transizione del nostro Sistema verso le fonti di energia rinnovabile è un processo molto lento, che richiede decenni per compiersi, dobbiamo agire da subito, e in modo estremamente incisivo. Se non faremo nulla, lasciando che le cose procedano come sempre, la soglia dei 2°C verrà raggiunta entro 16 anni: superato questo limite le temperature saliranno molto velocemente, arrivando anche ai 5 o più gradi entro la fine del secolo. Il mondo che i nostri figli si troverebbero ad abitare sarebbe irriconoscibile rispetto a quello nel quale oggi viviamo.
Putroppo, in termini di politiche mondiali per la riduzione delle emissioni siamo molto lontani dagli obiettivi da conseguire. È indubbio che l’Unione Europea sia riuscita nell’obiettivo di diminuire le proprie emissioni, ma è anche vero che ciò è potuto accadere grazie ad una delocalizzazione della produzione, che si è spostata in Cina, dove una parte significativa dei gas serra generati è dovuta alle esportazioni di merci che vengono commissionate dai nostri mercati. Davanti ad una minaccia terribile che tocca l’umanità intera, comandano ancora le economie e le necessità immediate. Sopratutto nel nostro paese, l’interesse dei cittadini verso queste tematiche è davvero molto basso, e la pressione esercitata sulle istituzioni, ai fini di un cambiamento delle politiche, è quasi inesistente: basta dire che a tutt’oggi, a livello mondiale, gli incentivi che vanno ai combustibili fossili sono 5 volte maggiori rispetto a quelli che vengono destinati alle energie rinnovabili.

Una transizione prima di tutto culturale

Nell’immaginario collettivo ci si aspetta di poter transitare in un mondo nuovo, “verde e pulito”, uguale nella sostanza a quello odierno, ma basato totalmente sulle energie rinnovabili. La verità è che non esistono delle alternative concrete ai combustibili fossili: senza di questi non siamo in grado di mantenere un sistema di trasporti come quello attuale (aerei e navi che solcano i cieli ed i mari trasportando grandi quantità di merci e persone); non siamo in grado di estrarre i minerali che ci consentono l’attuale produzione di merci e di oggetti tecnologici ai quali ci siamo abituati; non siamo in grado di costruire e mantenere le infrastrutture, i grattacieli, ed anche le stesse grandi strutture di produzione energetica, compreso l’idroelettrico ed il nucleare. E sopratutto, non siamo in grado di garantire una produttività agricola come quella che abbiamo sperimentato negli scorsi decenni, e che stiamo sperimentando ancora oggi: in gni caso, questo modo di coltivare non risulterebbe sostenibile nel lungo termine, perchè la logica intensiva finisce di trasformare il suolo fertile in infertile. Alla base della transizione che dovremo necessariamente compiere non c’è il lavoro ingegneristico, ma una grande e profonda rivoluzione culturale: dopo aver scoperto che la Terra non è piatta ma sferica, dopo aver compreso che non si trova al centro dell’Universo ma ruota intorno al Sole, ora dobbiamo realizzare che ha una dimensione fisica limitata. Al di là dei tesori nascosti, che hanno vita breve e non riescono a durare più di un paio di secoli, le risorse materiali che il nostro Pianeta può darci sono piccole rispetto alle nostre attuali pretese.

Gabriele Porrati, Presidente della Cooperativa Onlus Cambiamo e Yuri Galletti, Presidente di Semi di Scienza.

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Discorsi “energetici” http://www.semidiscienza.it/2019/02/26/discorsi-energetici/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=discorsi-energetici http://www.semidiscienza.it/2019/02/26/discorsi-energetici/#respond Tue, 26 Feb 2019 13:10:20 +0000 http://www.semidiscienza.it/?p=382 Il nostro sistema socioeconomico è quasi interamente basato sull’impiego dei combustibili fossili, che ci forniscono grandi quantità di energia altamente concentrata. Questo tipo di energia è  indispensabile per far funzionare la nostra società così come la conosciamo. Le energie rinnovabili al contrario ci possono fornire soltanto energia elettrica distribuita uniformemente sul territorio. Rispetto alla densità di potenza dei combustibili fossili, quella delle rinnovabili è da due a tre ordini di grandezza inferiore.

Per poter effettuare una transizione da fossili a rinnovabili, occorre quindi  riprogettare completamente il nostro modello, ma il tempo per attuare questa trasformazione è pochissimo, e la costruzione di nuove infrastrutture richiede dei grandi investimenti di energia, che dovrebbe essere sottratta al metabolismo dell’attuale socioeconomia, che viceversa ne sta richiedendo continuamente della nuova.

A questo problema si deve sommare il nostro crescente fabbisogno di minerali, che stanno man mano diminuendo le loro concentrazioni, obbligandoci ad impiegare quantità di energia sempre maggiori per poter estrarre ogni singola unità di prodotto. Attualmente circa il 10% di tutta l’energia primaria usata nel mondo viene impiegata per estrarre i minerali.

Inoltre, l’impiego massiccio dell’elettronica che è onnipresente in tutte le moderne tecnologie ha reso indispensabile l’impiego di un grande numero di materie prime completamente nuove. Questi minerali sono spesso rari o si trovano mescolati con altri, e richiedono grandi quantità di energia e processi molto complessi per poter essere ricavati. La stessa produzione di energia rinnovabile dipende dalla disponibilità di queste nuove materie prime, che rappresentano un fattore estremamente critico per la diffusione capillare di nuove tecnologie.

Quando si progettano nuovi modelli occorre anche considerare che i processi di digitalizzazione non sono così immateriali come potrebbe sembrare: l’infrastruttura della rete consuma attualmente circa il 10% di tutta l’energia elettrica disponibile, e dato che approssimativamente il traffico dati raddoppia ogni venti mesi, anche il consumo di energia tende a seguire lo stesso trend.

Occorre infine tener conto che nella scala delle pericolosità geopolitiche, le guerre per il controllo dei minerali strategici si trovano oggi ai primi posti. Ci sono infatti filiere molto complesse e non tracciabili come ad esempio la produzione di tantalio che sono la fonte di finanziamento per il traffico di armi che finiscono poi in mano ai guerriglieri e ai terroristi.

Ma quanto ci costa l’energia? Ce la faremo un giorno ad avere un sistema rinnovabile e sostenibile?

Dott. Yuri Galletti

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