The Limits to Growth – Lo studio del MIT di Boston, anno 1972
“The Limits to Growth” (I limiti della crescita) è un famoso rapporto redatto nel 1972 dal Massachusetts Institute of Technology di Boston su commissione del Club di Roma, il cui presidente Aurelio Peccei, economista, alto dirigente della Fiat e di imprese impegnate nella progettazione e costruzione di opere pubbliche nei paesi emergenti, si era posto la domanda se in un mondo di dimensioni finite come quello in cui viviamo fosse possibile una crescita economica e demografica infinita.
Nel 1968 Peccei aveva incontrato Jay Forrester, un ingegnere nordamericano specializzato nella progettazione di calcolatori elettronici, docente presso il prestigioso MIT. Già negli anni ’50 Forrester utilizzava i calcolatori per risolvere dei problemi di previsione: ad esempio, come cresce la produzione industriale in seguito all’aumento o alla diminuzione dei capitali disponibili, o come la mobilità in una città sia influenzata dalla crescita del numero degli abitanti, delle automobili, o dei mezzi di trasporto pubblico. Forrester aveva chiamato “Dinamica dei Sistemi” lo studio dei rapporti fra fenomeni il cui andamento può essere previsto mediante delle equazioni matematiche differenziali. Metodologie simili erano già state utilizzate trent’anni prima dagli studiosi di ecologia (Lotka/Volterra) per descrivere come aumentano o diminuiscono le popolazioni di organismi viventi all’interno di un ecosistema: i predatori prosperano quando c’è abbondanza di prede, ma alla lunga le risorse diminuiscono, e i predatori cresciuti in sovrannumero cominciano ad estinguersi, permettendo alle prede, ovvero alle risorse, di ricrearsi nuovamente (meccanismo di feedback).
L’incontro del 1968 fra Peccei e Forrester è stata l’occasione per progettare la ricerca. Peccei aveva creato da poco il “Club di Roma”, un circolo internazionale di intellettuali attenti al futuro: fu questo organismo che diede ufficialmente l’incarico a Forrester e al suo gruppo di lavoro di analizzare con le sue tecniche il nostro sistema globale. Il risultato fu rivoluzionario. Lo studio non faceva previsioni, ma indicava che l’aumento della popolazione avrebbe richiesto una crescita della produzione industriale ed una richiesta di prodotti agricoli e beni alimentari: di conseguenza, si sarebbe verificata una crescita dell’inquinamento planetario e una diminuzione delle risorse disponibili. La ricerca produsse un ventaglio di 12 scenari diversi, denominati “proiezioni”, alcuni dei quali mostravano il declino e il collasso dell’economia, mentre altri presentavano una condizione di stabilizzazione e di prosperità. La realizzazione dell’uno o dell’altro percorso sarebbe dipesa dalle scelte giuste o sbagliate che l’umanità avrebbe fatto nell’affrontare i problemi dell’inquinamento, dello sfruttamento delle risorse e della gestione dell’incremento demografico. La crisi che oggi noi vediamo corrisponde alla concretizzazione delle proiezioni derivanti da scelte sbagliate.
Uno dei problemi che cominciamo a percepire come conseguenza dell’inquinamento (che in generale rappresenta gli effetti generati a valle del nostro sistema produttivo) è l’alterazione della stabilità climatica del nostro Pianeta: per non mandare il clima terrestre completamente fuori controllo sappiamo che l’anomalia termica rispetto al periodo preindustriale deve essere contenuta entro il limite di 1,5°-2°C di aumento. L’obiettivo di riduzione dei gas serra per poter restare all’interno di questi valori è tecnicamente possibile: sappiamo benissimo come costruire auto elettriche ed abitazioni ben isolate, sappiamo come produrre pannelli solari e pale eoliche che generino energia al posto di centrali funzionanti a petrolio e carbone. Sappiamo anche come costruire oggetti affidabili, riparabili, che siano capaci di durare nel tempo. Le tecnologie esistono, e non sono tremendamente costose da applicare: secondo l’analisi di Randers, che non si discosta da quanto affermato nel 2006 dal Rapporto Stern, redatto dall’ex vicepresidente e capo economista della Banca Mondiale Nicholas Stern, gli investimenti da attuare corrispondono grosso modo all’1-2% del PIL mondiale, che significa un piccolo spostamento nell’impiego di capitali, o un piccolo posticipo o ridimensionamento nella concretizzazione di qualche consumo.
Conosciamo quindi la strada giusta, ma continuiamo a fare le scelte sbagliate perchè di fatto, imbocchiamo sempre la direzione che a breve termine comporta i costi minori. Applicare questo metodo significa non avere alcun controllo sul tipo di futuro che stiamo creando.
Articolo a cura di Gabriele Porrati, socio di semi di scienza e presidente della cooperativa Cambiamo di Pavia. Qui di seguito il link all’articolo completo: http://www.cambiamo.org/docs/131227-the-limits-to-growth.php
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