“Questione di “reti”: di biodiversità e aree protette”
Pochi mesi fa l’IPBES, il panel intergovernativo ONU su biodiversità e servizi ecosistemici, ha pubblicato un rapporto sullo stato di salute della biodiversità mondiale che è stato accolto con molta comprensibile preoccupazione. Secondo i 145 esperti provenienti da tutto il mondo, che per confezionare il report hanno revisionato circa 15.000 fonti scientifiche e governative, un milione di specie, tra animali e vegetali, sono a rischio estinzione in un prossimo futuro. La biodiversità, ossia la ricchezza vivente di un dato luogo, ci arricchisce e dona vita in vario modo: tutto ciò che mangiamo, l’acqua potabile che beviamo, l’aria che respiriamo, i nostri passatempi, le mete dei nostri viaggi, la nostra salute e talvolta anche il nostro lavoro hanno a che fare con un buono stato di salute di questa finita ricchezza.
Quali sono le azioni che logorano e indeboliscono la fitta trama di connessioni di tutto questo importantissimo patrimonio naturale? La distruzione dei territori, l’introduzione di specie altamente invasive, l’inquinamento dei mari, del suolo, dell’aria, la crisi climatica in atto sono tra i maggiori attori protagonisti della perdita di biodiversità, dell’allentamento della rete vivente e di tutte le sue connessioni. Per rallentare questo continuo declino abbiamo creato (e dobbiamo necessariamente continuare a farlo) delle aree che mirino non solo alla protezione degli ambienti naturali più in pericolo e maggiormente rari, ma anche ad una necessaria armonizzazione delle attività umane in rapporto alla Natura che si vuole tutelare: i parchi naturali, quelli regionali e nazionali, le aree e le riserve protette, le zone umide, le aree marine protette, i Siti di Importanza Comunitaria e le Zone di Protezione Speciale. In tutta Italia, queste aree arrivano a coprire circa il 19% della superficie nazionale con importanti ricadute positive sui territori locali in cui sono state istituite come la protezione dal dissesto idrogeologico, la difesa dagli eventi estremi, l’influsso positivo sulla psicologia e il comportamento personale e molto altro.
La necessità di creare e gestire parchi e aree protette è ribadito con chiarezza dall’articolo 8 della Convenzione Internazionale sulla Biodiversità e dall’Obiettivo 7 del Millennium Development. Ad oggi il 12% della superficie del Pianeta è riconosciuta come area protetta, una percentuale positiva ma piena di lacune: non tutti gli ecosistemi infatti sono protetti in modo adeguato e molte aree protette non sono gestite o lo sono soltanto parzialmente, o addirittura mancano gli strumenti di tutela. Per questo motivo non basta soltanto aumentare la superficie protetta, ma dobbiamo far si che queste aree ricevano fondi opportuni e che lavorino bene per il mantenimento del patrimonio naturale. In più servirebbe che anche nelle città e nelle periferie prendesse piede il logico pensiero di unire, tramite corridoi ecologici, i vari parchi cittadini e le aree verdi e loro ai grandi parchi e riserve di cui si parlava prima. Creando un’idea tangibile di Parco “diffuso” anche all’interno di quello che è oggi chiamato “ecosistema urbano”. Anche a livello legislativo, non soltanto per l’Italia, ma anche per l’Unione Europea è importante che gli strumenti legislativi come la Direttiva Habitat e la Direttiva Uccelli non siano indeboliti, ma che anzi, vengano messi maggiormente in atto.
E infine una provocazione: “Chissà se arriveremo mai a veder realizzato l’auspicio necessario che il biologo E. Wilson propone nel suo più recente lavoro “Metà della Terra”: la soluzione apparentemente estrema di destinare il 50% della superficie del pianeta (oceani inclusi) alla natura. Niente essere umano, artifici, tecnologia, solo natura. Creare una “rete globale di riserve inviolabili che coprano metà della superficie della Terra”. La proposta è affascinante e, immaginiamo, al momento irrealizzabile. Eppure nasce da precisi ragionamenti tecnici (“una soluzione commisurata alla gravità del problema”, dice Wilson) e porta con se un principio fondamentale, di assoluta evidenza: se nel mondo esistono decine di milioni di specie viventi, di cui una è Homo sapiens, la divisione 50 e 50 (50% all’essere umano e 50% a tutte le altre) è così insensata?”
Andrea Somma, naturalista e membro nazionale del direttivo della LIPU.
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