Il tecnofideismo e il pianeta nuovo. Una non-recensione al libro di Oliver Morton « Il pianeta nuovo »

Di Luciano Celi

La prima stesura di questo documento era avvenuta dopo la lettura un po’ spazientita e con qualche pregiudizio del libro di Oliver Morton, Il pianeta nuovo (il Saggiatore). Avevo deciso per una non-recensione fatta limitandomi alle prime 60 pagine, poi ho pensato che sarei stato ingiusto. La domanda è: si può immaginare di recensire un libro dopo averne letto solo meno di un quinto o, per necessaria correttezza, fondamentale scrupolo anche logico – noto come fallacia induttiva della generalizzazione indebita: “un uomo ha rubato una mela. Quindi tutti gli uomini sono ladri” – e di rettitudine morale, non lo si deve fare fino alla lettura dell’ultima pagina?

In prima battuta avevo deciso di rispondere di sì a questa domanda, ma mi sono dato il tempo di leggere il libro per intero e ho fatto bene – quasi sempre si fa bene a non dare retta all’impulso del primo momento. Ho fatto bene perché Morton è innanzitutto una persona di grande onestà intellettuale, con idee diverse da quelle che posso avere io su molti argomenti, ma non gli si può non riconoscere di porre le questioni nella maniera adeguata, soprattutto per un argomento tanto controverso come quello della geoingegneria. Perché di questo il cospicuo volume – che pure parte da lontano – parla. E ne parla avanzando, per primo l’autore stesso, una serie di critiche a questa ipotetica metodologia che consiste, in sostanza, in una serie di tecniche volte a mitigare gli effetti del riscaldamento globale usando stratagemmi quali la velatura stratosferica. Alcune delle critiche che feci in prima battuta restano valide, come l’affermazione, nelle prime pagine (p. 12 per la precisione) in cui l’autore accenna ai “molti […] dubbi sulla portata del cambiamento climatico che il pianeta affronterà nei decenni e nei secoli a venire” e descrive molto sommariamente i limiti dei modelli climatici che, in quanto tali, sono capaci di rappresentare in una certa misura e con un certo grado di affidabilità, spesso dichiarato nella previsione stessa, una situazione climatica futura.

Qui per esempio Morton sembra ignorare un diagramma, passato forse troppo sotto silenzio, in un vecchio articolo scientifico – un editoriale per essere precisi – di Bernard Etkin: A state space view of the ice ages—a new look at familiar data, sulla rivista “Climatic Change” (2010) 100:403–406 DOI: 10.1007/s10584-010-9821-x. Il diagramma di fase è di facile comprensione ed è riportato qui di seguito.

In ascissa la concentrazione atmosferica di CO2 in parti per milione e in ordinata le anomalie delle temperature. C’è, come si vede, una zona evidenziata dall’ellisse in cui le fluttuazioni si sono mosse dentro quell’area specifica che possiamo considerare una zona di equilibrio. A un certo punto però la linea esce dall’ellisse e, all’aumentare della concentrazione atmosferica di CO2, prende una strada tutta sua. Per andare dove? Chi lo sa! Possiamo e vogliamo auspicare verso una nuova zona di equilibrio, ma è troppo presto per dirlo visto che in sostanza – data la scala dei tempi – ci troviamo in media res. Varrebbe quindi da applicare ciò che passa sotto il nome di principio di precauzione ( link: https://it.wikipedia.org/wiki/Principio_di_precauzione), ovvero: siccome non sappiamo dove si sta andando a parare ed esploriamo un territorio ignoto, sarebbe il caso di ripensare l’approccio al pianeta di cui siamo ospiti e non porre le premesse per l’uso della geoingegneria. Il rischio concreto è che la toppa sia peggio del buco, con l’aggravante che… non ce lo possiamo permettere, visto che la posta in gioco è di fatto la sopravvivenza dei Sapiens sul pianeta. Morton discute anche di questo nella parte finale del libro, mettendo in chiaro i possibili benefici, ma anche i molti rischi che vanno dall’azzardo morale (la cui spiegazione è semplice: ipotizzando di riuscire a creare un velo efficace e, più in generale, ci sono i sistemi per tenere sotto controllo il termostato della terra, allora possiamo continuare a bruciare le fossili come vogliamo) alle conseguenze impreviste che tirano in ballo il principio di precauzione di cui sopra.

Un secondo esempio è dato poco dopo (p. 28) dove si incorre in una sorta di fallacia, abbastanza nota, del “tutto o niente”, ovvero: poiché l’urgenza climatica è tale da indurre un’azione molto estesa sin da subito, i contributi delle singole nazioni, anche di quelle più virtuose – vengono citate espressamente Germania e, all’interno degli Stati Uniti, la California – è insufficiente, è troppo poco. Vero, ma anche questo sembra un ragionamento privo di una sua logica – o meglio: dotato di una logica utile a sostenere la tesi geoingegneristica per la quale la scala su cui agire, lasciando il resto del mondo così com’è, vale a dire con la combustione dei combustibili fossili, ecc., è e deve essere mondiale. Esistono infatti delle sane gradazioni tra lo 0% e il 100% e sane lo sono perché mostrano che lo sforzo al virtuosismo e alla sostenibilità può e deve essere affrontato con metodi tradizionali e, aggiungiamo, con quello che dovrebbe essere un cambio di paradigma. Un paradigma che parla di diminuzione consapevole dei consumi, di standard di vita, buoni ma non eccessivi, ecc. Intanto partiamo con quel che si ha, diamo spazio ai virtuosi e facciamo in modo che il resto delle nazioni segua!

Il libro però è interessante e, sotto molti aspetti, stimolante, come quando si traccia il parallelo tra le paure di una minaccia nucleare globale e il cambiamento climatico: i modelli – e all’inizio anche i calcolatori impiegati! – racconta Morton, erano in sostanza gli stessi. Le macchine che calcolavano le reazioni nucleari erano quelle che cercavano di predire cosa avrebbe comportato lo sconsiderato aumento di CO2 in atmosfera.

Insomma, per concludere: la strada su cui stiamo secondo l’autore sembra essere l’unica percorribile e non si immagina una vera libertà di scelta per l’umanità. Una scelta che dovrebbe essere anche socialmente più sostenibile, ma che di fatto non viene mai realmente presa in considerazione, affidando solo ed esclusivamente la tecnologia il salvifico compito della vita umana sul pianeta, nonostante tutto e nonostante i rischi che l’autore stesso paventa. In tutto il libro l’autore sembra non chiedersi mai: se il frutto dell’ingiustizia energetico-climatica nella quale viviamo è proprio stato il paradigma nel quale siamo vissuti finora, non sarebbe il caso di un ripensamento generale? No, la domanda non lo sfiora mai. Anzi, la soluzione – o meglio: la Soluzione – è, ancora una volta, la tecnologia, a costo di far danni ancora peggiori, come uno degli scenari descritti alla fine, secondo cui è possibile che, non conoscendo esattamente le retroazioni della complessa macchina climatica, si esasperino – più o meno volontariamente – le ingiustizie climatiche che già esistono.

Tutto questo mi porta alla mente un esempio che tutti abbiamo oggi sotto gli occhi: le auto di nuova generazione sono tutte (o quasi) dotate di ogni sorta di gadget tecnologico, primo tra i quali quello della “sicurezza anticollisione” creato, credo, per tutti coloro che dovendo stare in auto a giornate sane, nell’abitacolo fanno di tutto tranne che guidare. Tanto c’è l’anticollisione che ci pensa, e io posso continuare a tenere gli occhi fissi sul mio telefono cellulare o sul touchscreen dell’auto. Questo il messaggio. Un messaggio che trovo pericolosamente deresponsabilizzante: abdicare al nostro ruolo consapevole e cosciente di conservazione di habitat necessari a una nostra buona vita, come animali (evoluti?) tra gli animali.

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