Mascherine (e guanti): una nuova ripartenza o la solita vecchia storia?
All’inizio del mese di aprile è uscito sul «manifesto» un bell’articolo di Angel Luis Lara [1], tradotto da Pierluigi Sullo dallo spagnolo e comparso originariamente sul quotidiano indipendente online «El Diario» pochi giorni prima, alla fine di marzo.
È un articolo che dice cose ragionevoli, condivisibili, di cui anche i più “distratti” hanno una qualche cognizione. Al suo interno si traccia brevemente la storia, anche scientifica, che ha portato “in tempi non sospetti” (2016 e anche diversi anni prima) a identificare rischi e pericoli di uno spillover, cioè di un salto di specie da animali a esseri umani. E ovviamente tanta parte della colpa è quella che, come specie, sappiamo di avere: lo sfruttamento intensivo delle risorse, la sempre più spinta erosione degli ecosistemi insieme a un’altra serie di concause, hanno creato le condizioni ideali perché tutto ciò che è avvenuto, finora, avvenisse. È un “mantra” che molti di noi hanno ascoltato, ma l’articolo pone poi l’accento, alla fine, su quella che dovrebbe essere vista (anche) come una reale occasione per cambiare:
“Un giornalista si è avventurato qualche giorno fa ad offrire una risposta sull’origine del Covid-19: “Il coronavirus è una vendetta della natura”. Al fondo non gli manca una ragione. Nel 1981 Margaret Thatcher depose una frase per i posteri che rivelava il senso del progetto cui lei partecipava: “L’economia è il metodo, l’obiettivo è cambiare l’anima”. La prima ministra non ingannava nessuno. Da tempo la ragione neoliberista ha convertito ai nostri occhi il capitalismo in uno stato di natura. L’azione di un essere microscopico, tuttavia, non solo sta riuscendo di arrivare anche alla nostra anima, ma ha spalancato una finestra grazie alla quale respiriamo l’evidenza di quel che non volevamo vedere. Ad ogni corpo che tocca e fa ammalare, il virus reclama che tracciamo la linea di continuità tra la sua origine e la qualità di un modo di vita incompatibile con la vita stessa. In questo senso, per paradossale che sembri, affrontiamo un patogeno dolorosamente virtuoso. La sua mobilità aerea sta mettendo allo scoperto tutte le violenze strutturali e le catastrofi quotidiane là dove si producono, ossia ovunque. Nell’immaginario collettivo comincia a diffondersi una razionalità di ordine bellico: siamo in guerra contro un coronavirus. Eppure sarebbe forse più esatto pensare che è una formazione sociale catastrofica quella che è in guerra contro di noi già da molto tempo. Nel corso della pandemia, le autorità politiche e scientifiche dicono che sono le persone gli agenti più decisivi per arginare il contagio. Il nostro confinamento è inteso in questi giorni come il più vitale esercizio di cittadinanza. Tuttavia, abbiamo bisogno di essere capaci di portarlo più lontano. Se la clausura ha congelato la normalità delle nostre inerzie e dei nostri automatismi, approfittiamo del tempo sospeso per interrogarci su inerzie e automatismi. Non c’è normalità alla quale ritornare quando quello che abbiamo reso normale ieri ci ha condotto a quel che oggi abbiamo.
Ecco, quest’ultima frase è quella su cui dovremmo riflettere a livello collettivo. Come ha affermato Churchill: «L’era della procrastinazione, delle mezze misure, degli espedienti lenitivi e sconcertanti, dei ritardi sta per concludersi. Al suo posto stiamo entrando in un periodo di conseguenze». Anzi, aggiungerei, ci siamo già entrati – ma Churchill scriveva quello che scriveva per altre ragioni e nel 1936, quindi è scusato.
E invece? Invece i segnali sono tutti contrari: nessuno, tra quelli che contano, sembra aver riflettuto abbastanza nei due mesi di lockdown, sul modo in cui viviamo e anzi: si invoca da più parti una ripartenza “più forte di prima”. In un paese come il nostro dove ci sono 62 auto ogni 100 abitanti (avete letto bene: e gli abitanti sono da zero agli ultracentenari e il dato è relativamente vecchio perché è del 2017[2]) e siamo i primi in Europa (verrebbe da dire: per stupidità), sui telegiornali nazionali si intervistano… i venditori di auto che non hanno battuto chiodo nel primo trimestre di quest’anno (5mila auto vendute in tutto, a fronte delle 175mila nello stesso periodo dello scorso anno).
Poi ci sono le mascherine e i guanti: un’industria fiorente in questo periodo, verrebbe da dire, ma che vuole essere industria a tutti i costi. Facciamo un calcolo terra terra. Mettiamo che, dei 60 milioni di italiani, quotidianamente solo la metà abbia la necessità di utilizzare una sola mascherina e un solo paio di guanti al giorno. Vi sembra ragionevole? Diciamo che lo è anche se non lo è. Mettiamo che questa giusta precauzione debba essere esercitata, per legge, per i prossimi 6 mesi. Sei mesi sono la metà di un anno, ovvero 183 giorni per 30 milioni di italiani fanno 5 miliardi e 490 milioni di mascherine e altri 5 miliardi e 490 milioni di paia di guanti. Ho fatto il “conto della serva”, ma stiamo parlando di quantità difficili da immaginare. E anche di un discreto numero di euro – per l’esattezza 2 miliardi e 745 milioni se mascherina + guanti costassero 0,5 euro. Ma se constassero anche solo 0,3 euro stiamo comunque parlando di un miliardo e 647 milioni di euro. Una bella torta da spartire, soprattutto se l’orizzonte sono 6 mesi.
Le persone poi, per un effetto psicologico comprensibile – anche se non è comprensibile né condivisibile il comportamento che ne segue – una volta fatta la spesa o usati i “dispositivi di protezione individuale”, temendo che siano infetti, cosa fa? Li butta a terra! Non ci credete? Queste sono alcune foto scattate a Pisa, in città. Che credo non sia però l’unica città in cui questo avviene.
Quattro giorni fa – un po’ tardi forse… – un giornale online di Rovigo, «Rovigo Oggi», pone la questione, mostra una foto scattata fuori da un supermercato e offre delle indicazioni “locali” (per la zona, fornite dall’azienda che si occupa dello smaltimento dei rifiuti urbani)[3].
Solo oggi, 11 maggio, il Ministero della Salute mette online un vademecum di come “trattare” quello che, una volta usato (i dispositivi di protezione individuali), diventa rifiuto: semplicemente buttare nell’indifferenziato[4].
Nella nota inoltre, per fortuna e meno male, si parla anche delle “mascherine di comunità”, vale a dire quelle mascherine prodotte (anche) artigianalmente e lavabili, ammesse, a patto che siano multistrato, con la funzione «di ridurre la circolazione del virus nella vita quotidiana» pur non essendo «soggette a particolari certificazioni. Non devono essere considerate né dei dispositivi medici, né dispositivi di protezione individuale, ma una misura igienica utile a ridurre la diffusione del virus SARS-COV-2». Ma grazie alle quali, forse, potremmo sperare di inquinare un po’ meno il mondo e di trasformare nel solito meccanismo del business as usual anche questa vicenda.
Luciano Celi
[1] Covid-19, non torniamo alla normalità. La normalità è il problema, «Il manifesto», 4 aprile 2020.
[2] https://www.ansa.it/canale_motori/notizie/analisi_commenti/2017/05/08/italia-prima-in-europa-nel-rapporto-tra-auto-e-abitanti_516357f7-6d1d-401a-b6c9-3fd4d2c2b0fc.html
[3] https://www.rovigooggi.it/n/98931/2020-05-07/mascherine-e-guanti-usati-non-vanno-buttati-a-terra
[4] http://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus/dettaglioNotizieNuovoCoronavirus.jsp?lingua=italiano&menu=notizie&p=dalministero&id=4722
Clicca qua per scaricare la guida “Come indossare, utilizzare, togliere e smaltire le mascherine nell’uso quotidiano” a cura dell’ISS.
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