Economia – Semi di Scienza https://www.semidiscienza.it Wed, 13 Mar 2024 12:39:32 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.8.10 https://www.semidiscienza.it/wp-content/uploads/2019/01/cropped-Semi-di-scienza-1-32x32.png Economia – Semi di Scienza https://www.semidiscienza.it 32 32 Criptovalute e sostenibilità: un connubio possibile? https://www.semidiscienza.it/2022/10/17/criptovalute-e-sostenibilita-un-connubio-possibile/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=criptovalute-e-sostenibilita-un-connubio-possibile https://www.semidiscienza.it/2022/10/17/criptovalute-e-sostenibilita-un-connubio-possibile/#respond Mon, 17 Oct 2022 20:40:42 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=1949 Ph. di André François McKenzie su Unsplash

Di Maila Agostini

Le criptovalute sono valute visualizzabili solo conoscendo un codice di accesso; non esistono in forma fisica, quindi non è possibile trovare in circolazione, per esempio, bitcoin in formato cartaceo o metallico. Questo tipo di “moneta” non ha corso legale quasi da nessuna parte del mondo; l’accettazione come metodo di pagamento è quindi su base volontaria. Tuttavia, qualche stato come l’Uruguay e il Venezuela hanno deciso di sperimentare l’utilizzo di valuta virtuale nei propri paesi.
Le criptovalute hanno alcune caratteristiche particolari:

  • un protocollo, cioè un codice informatico che specifica il modo in cui i partecipanti possono effettuare le transazioni;
  • un “libro mastro” (blockchain) che conserva la storia della transazioni;
  • una rete decentralizzata di partecipanti che aggiornano, conservano e consultano il libro mastro secondo le regole del protocollo.

Sono soggette a fluttuazioni molto ampie, quindi sono poco efficienti come mezzo di pagamento, in quanto risulta difficile prezzare beni e servizi. Tuttavia, visto che il numero di criptovalute che possono essere generate è limitato, potrebbero assolvere, in futuro, a una funzione di scambio.

Si tratta di monete virtuali decentralizzate, ovvero che non rientrano sotto il controllo di istituti finanziari o governi; essendo immateriali, sembrano “green”, ma sono davvero così sostenibili?
La maggior parte delle persone, pur avendo sentito parlare di criptovalute e blockchain, ha ancora difficoltà a capire come funzionano queste tecnologie. Di cosa stiamo parlando esattamente? Si tratta di una risorsa finanziaria digitale decentralizzata; proprio per questo motivo, le loro fluttuazioni in borsa sono più drastiche rispetto ai tradizionali prodotti economici. La più nota di queste monete digitali è il Bitcoin, le cui transazioni vengono registrate sulla blockchain, una specie di registro digitale in cui le voci sono concatenate in ordine cronologico, che rappresenta il “libro mastro” in cui vengono registrate le operazioni. Le monete virtuali possono essere utilizzate come forma di pagamento per acquisti online, essere scambiate con valute reali oppure essere trattate come un prodotto di investimento, quindi conservate e scambiate quando il mercato è più favorevole.
Ma una moneta virtuale non nasce dal nulla; ha bisogno di essere creata tramite una tecnica chiamata mining.


Mining Farm e alternative


Abbiamo detto che la blockchain rappresenta il libro mastro delle valute digitali; perché tutte le transazioni vengano controllate, i nodi, che rappresentano decine di migliaia di computer, si collegano per supervisionare il funzionamento della catena digitale. Devono quindi dare il via libera alla transazione, verificando che sia autentica, e vengono “pagati” per questo lavoro di controllo proprio in criptovaluta. Tuttavia, non tutti i computer che si collegano approvano la transazione, masoltanto il primo che riesce a risolvere un complicato algoritmo. Si genera quindi una “gara”, in cui migliaia di computer competono per trovare la soluzione.

Siamo al punto caldo; le critiche principali che vengono mosse a queste tecnologie sono dovute alle enormi emissioni di anidride carbonica delle mining farm. Le macchine, lavorando in competizione per la stessa transazione, si azionano simultaneamente; questo vuol dire che si consumano quantità elevatissime di elettricità che, ovviamente, produce gas serra.

Alcune valute sono più sostenibili di altre, anche solo per il minore numero di transazioni che vengono effettuate con quella moneta. Ci sono quindi più fattori da considerare: il numero di transazioni, gli algoritmi e i sistemi utilizzati. Non tutte le criptomonete utilizzano il metodo proof of work; alcune si basano su tecnologie proof of storage, che invece di riservare capacità di calcolo riserva spazio di archiviazione, oppure block lattice, un’infrastruttura simile a una catena di blocchi in cui ogni utente è proprietario della sua catena e quindi l’intera rete non viene aggiornata contemporaneamente; si può altrimenti utilizzare il sistema proof of stake, che seleziona casualmente alcuni nodi della blockchain. Questi metodi sono molto più ecologici rispetto al proof of work.

Il meccanismo proof of stake richiede meno dell’1% dell’energia utilizzata per minare Bitcoin; questo significa che è possibile aumentare il numero di transazioni gestite di quasi un ordine di grandezza. Un cambiamento radicale si avrà con il passaggio di Ethereum al sistema proof of stake. Essendo questa valuta la seconda per importanza, il numero di operazioni gestite dalla stessa potrebbe aumentare, mentre diminuiscono i consumi necessari per la gestione.
Se si trattasse soltanto di monete scambiate a fini speculativi, forse il problema non sarebbe così grande; in realtà, alcune di queste valute virtuali consentono l’utilizzo della tecnologia blockchain per diverse applicazioni. Cardano, per esempio, su richiesta del governo etiope, tiene traccia delle performance degli studenti, per evitare falsificazioni di certificati scolastici, piaga diffusa nel paese. Altre, invece, come Ethereum, consentono di autenticare le proprie opere d’arte digitali, permettendo agli artisti di avere un compenso per il loro lavoro. 


Verso la svolta green


Risulta quindi evidente che i big del settore tecnologico abbiano un grande peso nella svolta green delle criptomonete. Questo ha portato parte dell’industria legata al mining, a lavorare a un accordo sul clima, in modo da limitare il costo energetico dei nodi coinvolti nelle operazioni (basti pensare che, da solo, il Bitcoin consuma annualmente la stessa energia di Hong Kong, mentre Ethereum consuma circa quanto la Lituania). Questa operazione di auto-regolamentazione si impone due tappe principali: la prima, da raggiungere entro il 2030, vede tutte le operazioni sostenute da fonti rinnovabili; la seconda tappa, fissata per il 2040, mira a raggiungere la neutralità climatica con emissioni zero. Questo significa che si dovrà trovare anche uno standard comune per misurare le emissioni dovute alle valute digitali.


Sarà un compito arduo il coinvolgere tutti gli attori di questo mercato, proprio perché la maggior parte delle criptomonete è pensata per essere un sistema decentralizzato e senza supervisione. Inoltre, momentaneamente, non si hanno obiettivi concreti, se non i due principali, la sostenibilità e l’impatto zero, fissati per il 2030 e il 2040. Probabilmente questo è dovuto anche al fatto che si tratta di un settore innovativo, in cui si ha la necessità di trovare nuove strade. La difficile sfida per rendere green le criptovalute, guidata interamente dal settore privato, è appena all’inizio.


Sitografia:
www.cryptoclimate.org
www.theverge.com/
www.greencluster.it

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La complessità della negoziazione climatica: la COP26 https://www.semidiscienza.it/2021/12/07/la-complessita-della-negoziazione-climatica-la-cop26/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=la-complessita-della-negoziazione-climatica-la-cop26 https://www.semidiscienza.it/2021/12/07/la-complessita-della-negoziazione-climatica-la-cop26/#respond Tue, 07 Dec 2021 15:02:33 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=1514 La ventiseiesima Conferenza delle Parti dell’UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change), in una sigla COP26, si è tenuta a Glasgow (Scozia) dal 31 ottobre al 12 novembre 2021. È stata presieduta dal governo britannico in partnership con l’Italia, dove a settembre si è svolta, a Milano, la conferenza preparatoria Pre-COP26.

Circa un anno fa il presidente della COP26 Alok Sharma dichiarava: “I passi che stiamo prendendo per ricostruire le nostre economie avranno un profondo impatto sulla sostenibilità, la resilienza e il benessere delle nostre future società e la COP26 può essere un’occasione in cui il mondo si unisce in nome di una ripresa pulita e resiliente”.

Ora, a un mese circa dalla fine della conferenza e a mente fredda, avendo ascoltato centinaia di dichiarazioni e letto decine di articoli sull’argomento, cosa possiamo realmente dire?

LE PREMESSE

Innanzitutto, un evento di negoziazione di questa portata dovrebbe essere considerato come estremamente complesso, in quanto i 197 paesi coinvolti devono necessariamente trovare un accordo o più accordi, ma ognuno di questi presenta le sue criticità, ha le sue priorità politiche, definisce specifiche leggi nazionali spesso molto differenti tra i vari paesi. Inoltre pesano i grandi divari economici tra paesi ricchi e paesi poveri e le disuguaglianze sociali, ancora più accentuate in seguito alla pandemia globale da Covid-19. L’aspetto principale che hanno in comune questi paesi è che si basano tutti fondamentalmente sull’economia degli idrocarburi, da cui deriva la crisi climatica che deve essere risolta a livello globale. Quindi i negoziati sul clima rappresentano oggi uno dei processi multilaterali più complicati della storia dell’umanità.

Una seconda premessa, più di carattere scientifico, riguarda il fatto che il modello economico che ha permesso negli ultimi due secoli lo sviluppo della nostra specie ha sicuramente portato enormi e concreti benefici, ma allo stesso tempo ci ha guidati verso una crisi planetaria dovuta al cambiamento climatico, alle modificazioni irreversibili degli ecosistemi, alla perdita di biodiversità, all’eccessiva urbanizzazione e quindi all’alterazione dei delicati equilibri della biosfera. Occorre ribadire il fatto che gli effetti dell’aumento della concentrazione dei gas serra climalteranti in atmosfera e il conseguente aumento della temperatura media globale sono molteplici e colpiscono gli ecosistemi, la componente vivente e quella fisica fino a impattare sul nostro sistema socio-economico perché tutte le componenti delle biosfera sono interconnesse e si influenzano. Anche se riuscissimo ad azzerare le emissioni antropiche di gas serra entro il 2050 gli effetti e le conseguenze del cambiamento climatico, già in atto, persisteranno ancora per moltissimi anni.

LE ASPETTATIVE

Ogni anno i paesi si ritrovano a discutere di clima e di quali strategie mettere in atto per affrontare la questione climatica. I report scientifici dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), principale organismo internazionale per la valutazione del cambiamento climatico istituito nel 1988, vengono inviati ai decisori politici che quindi hanno appreso, dall’ultimo documento, che “limitare il riscaldamento globale a 1,5°C rispetto a 2°C potrebbe andare di pari passo con il raggiungimento di una società più sostenibile ed equa”, ma che allo stesso tempo “limitare il riscaldamento globale a 1,5°C richiede cambiamenti rapidi, lungimiranti e senza precedenti in tutti gli aspetti della società”.

COP26 era vista da molti come un’ultima spiaggia, da altri osservatori come un’opportunità unica di cambio di passo, mentre da altri ancora, più critici, come un’inutile appuntamento di blablabla.

I RISULTATI

Diamo qualche dato. La conferenza è stata la più partecipata di sempre, con circa 40.000 delegati, tra cui quasi 22.000 delegati delle Parti, quasi 12.000 rappresentanti di ONG (organizzazioni non governative), poco più di 1000 rappresentanti dell’ONU (Nazioni Unite) e ha visto le presenza di molti giornalisti (oltre 3000). È stata anche la più seguita di sempre e questo dimostra come ci sia una crescente consapevolezza sul tema anche da parte dei media generalisti e dell’opinione pubblica oltre che da parte delle istituzioni.

In sintesi, COP26 aveva quattro obiettivi principali: (1) mitigazione, (2) adattamento, (3) finanza e (4) collaborazione. Il 13 novembre 2021 il patto per il clima di Glasgow (Glasgow Climate Pact) è stato firmato dai 197 paesi partecipanti.

Sono state 50 le decisioni ufficiali prese durante le due settimane di negoziati che hanno permesso di raggiungere alcuni risultati importanti. In primis sono stati approvati i decreti attuativi, tra cui tabelle e formati, che serviranno a formalizzare gli accordi di Parigi del 2015 (COP21) e che saranno applicabili a tutti i paesi entro il 2024. Inoltre sono state approvate le regole sul mercato globale della CO2 (articolo 6 dell’Accordo di Parigi), con un testo approvato all’unanimità da esperti e associazioni ambientaliste.

Un altro importante punto è rappresentato dall’aumento dell’ambizione negli impegni di riduzione delle emissioni climalteranti. È stata ribadita la necessità di contenere l’aumento della temperatura globale entro gli 1,5°C rispetto ai valori pre-industriali, così come suggerito dalla comunità scientifica.

Occorre inoltre evidenziare un fatto importante sulla questione dei combustibili fossili, il cui termine non compariva nemmeno nell’Accordo di Parigi e sembrava essere diventato un vero e proprio tabù. Invece, durante COP26, più di 60 paesi, fra cui molti in via di sviluppo, hanno sottoscritto un documento in cui si impegnano a non costruire nuove centrali a carbone.

130 Stati e numerose istituzioni finanziarie si impegneranno inoltre “per arrestare e invertire la perdita di foreste e il degrado del suolo entro il 2030”. Per raggiungere tale scopo sono stati stanziati 12 miliardi di dollari dai singoli paesi e 7 da società private, tuttavia tale impegno non è vincolante per i governi e quindi non ci sarebbero conseguenze in caso di violazioni.

Molto importante dal punto di vista politico e strategico l’accordo tra Cina e Stati Uniti al fine di collaborare per risolvere insieme la questione climatica.

Non è purtroppo stato raggiunto un impegno definitivo per il fondo da 100 miliardi di dollari all’anno per sostenere i paesi più vulnerabili. Questo accordo doveva già essere raggiunto nel 2020. Tuttavia la negoziazione è proseguita anche durante COP26 grazie all’impegno messo in campo da parte di istituzioni finanziarie e paesi partecipanti al fine di aumentare i propri contributi e raggiungere il traguardo dei 100 miliardi il prima possibile.

Per quanto riguarda la tematica, spesso sottovalutata, dell’adattamento al cambiamento climatico si è raggiunta un’intesa sul programma di lavoro relativo al “Global Goal on Adaptation”, finalizzato a definire gli indicatori per monitorare le azioni di adattamento dei Paesi.

È stata infine la COP in cui si è riconosciuto finalmente il fondamentale e determinante lavoro della comunità scientifica, anch’essa chiamata a compiere sforzi senza precedenti in termini di cooperazione e produttività, considerando inoltre che spesso non riceve finanziamenti adeguati a sostenere le proprie ricerche.

In definitiva, si può affermare con certezza che qualche passo in avanti è stato fatto, ma sicuramente ancora insufficiente per evitare quel repentino cambio di stato del sistema biosfera che potrebbe tramutare la Terra in un ambiente molto inospitale, sicuramente inadatto a sostenere i nostri bisogni. Occorre quindi ancora definire molte strategie d’intervento e continuare sulla strada dell’azione, continuando a lavorare nella direzione delle neutralità climatica, rafforzando la cooperazione tra stati e investendo sullo sviluppo sostenibile. Ciò si raggiunge potenziando la ricerca scientifica, l’istruzione e la comunicazione. Questi ambiti sono determinanti per poter affrontare con consapevolezza le grandi criticità globali e la complessità che ne deriva. Infine, è dal mondo delle istituzioni che ci aspettiamo sempre qualcosa in più, sia a livello internazionale quando si tratta di andare a negoziare sia a livello nazionale e locale quando si tratta di individuare azioni concrete volte a promuovere la necessaria transizione ecologica fondamentale per dare un futuro alla nostra specie.

Autori: Gruppo sostenibilità Semi di Scienza (Yuri Galletti, Luciano Celi, Tosca Ballerini, Camilla De Luca, Cinzia Tromba, Matteo Bo)

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La sensazione di essere in trappola https://www.semidiscienza.it/2021/11/04/la-sensazione-di-essere-in-trappola/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=la-sensazione-di-essere-in-trappola https://www.semidiscienza.it/2021/11/04/la-sensazione-di-essere-in-trappola/#respond Thu, 04 Nov 2021 10:36:13 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=1481 Chi mi conosce mi sa ottimista. Ho avuto una vita per certi aspetti complicata e “disperante” in certi frangenti del passato, in occasione di cose che mi sono accadute, ma per le quali non è il caso di annoiare il lettore che arriverà a leggere queste righe. Non ho la vita che avrei voluto o che ancora vorrei, per “addrizzare il tiro” quel minimo necessario a uscire di scena dignitosamente, ma, se mi guardo intorno un po’ attentamente, mi viene da chiedermi: chi ha la vita che vorrebbe? Non mi pare siano molti – e non parlo della vita che facciamo vedere agli altri, ma di quella che per noi stessi avevamo immaginato, forse sognato.

Da diversi anni mi occupo tra lo “scientifico” e il “divulgativo” di energia e, più in generale, di risorse. Ho letto abbastanza, ma, come sempre, moltissimo resta da studiare e leggere e la sensazione, qui come altrove, è quella che una vita non basti a essere minimamente competenti. Diciamo che almeno mi sono fatto le basi. Occuparmi di questi argomenti ha avuto il preciso significato di popolare la mia piccola attività editoriale di libri che di questi argomenti parlino, con un approccio il più possibile scientifico-divulgativo (si cerca di trattare questi argomenti semplificando certi concetti, ma restando aderenti al rigore scientifico con cui devono essere trattati), ma soprattutto sempre con un occhio a quella che è la natura umana.

Già, la natura umana. Proprio quella che ci ha condotto fino qui, sul baratro del collasso ecosistemico globale. Ieri mattina in una mail raccontavo a un amico della mia partecipazione (come piccolissimo editore) al Pisa Book Festival. Ci sarebbe stato da mettere una webcam dietro il mio banchetto/stand che, pur presentandosi bene e molto colorato, in certi casi, quando la gente si avvicinava per leggere i titoli, prima sbarrava un po’ gli occhi come se avesse visto uno scarafaggio sulle copertine e poi, cercando di dissimulare, girava i tacchi verso approdi più tranquilli – magari letterari e magari di evasione. Comprensibile. Già siamo presi dai mille problemi del quotidiano, mica possiamo pensare di metterci a leggere cose impegnative che parlano di energia e risorse e del nostro modo, più o meno “volontario”, di stare su questo pianeta, anche se questo ci riguarda molto molto da vicino! Eppure sento che ha senso (cercare di) informare le persone su questi temi, che arrivano alle luci della ribalta mediatica solo quando la bolletta del gas o della luce rincara. O la benzina alla pompa ha cominciato una ascesa apparentemente inarrestabile, della quale però il mondo che ho intorno sembra continuare a non accorgersi.

Già, la natura umana. Come scrivevo tempo addietro, l’aspetto più lungimirante di quella pietra miliare che ho avuto l’onore di ripubblicare con Lu::Ce edizioni – I limiti alla crescita “ex” I limiti dello sviluppo – è costituto dal primo grafico. In un volume densissimo di grafici e proiezioni il primo, guarda caso, non riguarda nessun dato scientifico, ma ha a che fare proprio con la natura umana e credo non abbia bisogno di commenti. È come se gli autori, consapevoli di quello che stavano scrivendo, dicessero anche: “Attenzione! Possiamo fare tutte le proiezioni e gli scenari che vogliamo, ma di una cosa “ingovernabile” dobbiamo senz’altro tenere conto: la natura umana, che è fatta così – pensieri che nello spazio arrivano al quartiere, quando va bene, e nel tempo, alla prossima settimana…”. Il grafico è questo qui di seguito e credo non abbia bisogno di spiegazioni:

Sui motivi per cui la natura umana si sia storicamente configurata in questo modo, fior di psicologi cognitivisti, evoluzionisti, ecc. hanno tentato delle spiegazioni. Molte delle quali, sufficientemente semplici e convincenti, rimandano a un concetto che sta alla base della questione: il nostro cervello è “cablato” in modo da percepire pericoli immediati e vicini non lontani nello spazio e nel tempo, perché da pericoli immediati e vicini l’uomo si doveva difendere quando era nella savana o nel bush. Tutto il resto poteva aspettare. Questo “cablaggio” – e uso questo termine perché la questione sembra avere a che fare molto più con “l’hardware” del nostro cervello che con il “software” dei nostri pensieri – proprio perché tale, non si smantella nell’arco di un paio di generazioni e questo potrebbe essere in sostanza all’origine della nostra rovina futura. Si tratta di una incapacità strutturale, che dobbiamo fronteggiare e alla quale dobbiamo cercare di sopperire se vogliamo avere qualche chance di restare su questo pianeta in modo decente.

Un articolo che, in tempi recenti, mi ha dato molto da pensare sull’imminenza delle cose che accadono e che più o meno consciamente tendiamo a “rimandare” nel nostro cervello, è questo, sul blog di «Le Monde» che lo stesso autore – che si autodefinisce “Mr. Oil Man” – tiene su quella testata. Un articolo un po’ tecnico, ma sufficientemente comprensibile a chi mastichi un po’ di francese. Gli scenari che Matthieu Auzanneau delinea sono abbastanza inquietanti e non è che le cose vadano meglio a casa nostra, dove il PNRR (Piano Nazionale di ripresa e resilienza), grazie all’avvento del Ministero della transizione ecologica, capeggiato dal cigolante Cingolani, rischia di trasformarsi nel “piatto ricco” (piatto ricco / mi ci ficco – recitava un vecchio adagio dei giocatori di poker, e qui l’azzardo è ben più che una giocata al tavolo verde, visto che si tratta del futuro di tutti noi) delle multinazionali – anzi DELLA multinazionale – “Oil & Gas” nostrana, ENI (accompagnata dalla “sorella” Snam).

Già, la natura delle multinazionali. Se la natura umana è quella che abbiamo brevemente delineato – e per conoscerla, volendo tirare fuori un vecchio classico della filosofia, basta guardare dentro se stessi – sulla natura delle multinazionali si fa presto a delinearne la natura (e lo posso, in questo caso, fare anche con cognizione di causa, visto che ci sono stato dentro per un paio d’anni): sono strutture fatte per fare soldi. Per fare soldi il più possibile, con tutti i mezzi possibili (anche al limite e oltre la legalità, come racconta il libro di Marco Grasso e Stefano Vergine, Tutte le colpe dei petrolieri), tutto il resto può aspettare e comunque è accessorio e di facciata. Ma anche questo non lo sappiamo? Certo che lo sappiamo. Nessuno di noi è tanto ingenuo da pensare che siano lì per fare beneficienza. E quindi cosa possiamo aspettarci da loro? Che nel piatto ricco dei soldi stanziati per cercare di darci (dare a tutti noi) la remota possibilità di un futuro migliore – soprattutto per chi dopo di noi verrà – ci si buttino a rotta di collo e in tutti i modi possibili, al punto che, come racconta questa infografica qui sotto, tratta da questa pubblicazione scaricabile gratuitamente che invito tutti a leggere (sono poche pagine), le attività di lobbying del colosso energetico italiano ha prodotto qualcosa come 102 incontri tra il Ministero della transizione ecologica di cui sopra e i funzionari di ENI/Snam nei mesi che vanno dal 20 luglio 2020 al giugno 2021.

Da tutto questo la sensazione di essere in trappola. Una trappola che sta per scattare nel presente, ma soprattutto che non si tenta di disinnescare per il futuro.

Autore: Luciano Celi – membro del direttivo

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Il PNRR ci condurrà verso un futuro sostenibile? https://www.semidiscienza.it/2021/04/27/il-pnrr-ci-condurra-verso-un-futuro-sostenibile/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=il-pnrr-ci-condurra-verso-un-futuro-sostenibile https://www.semidiscienza.it/2021/04/27/il-pnrr-ci-condurra-verso-un-futuro-sostenibile/#respond Tue, 27 Apr 2021 12:47:21 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=1363 Lunedì 26 aprile il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) è finalmente approdato in Parlamento, sebbene ancora non in versione definitiva, perché la discussione nel frattempo continua tra i partiti di maggioranza. Poco diverso dunque dalle ultime bozze circolate. Il presidente del Consiglio l’ha presentato come uno strumento per “riparare i danni economici e sociali della crisi pandemica, contribuire a risolvere le debolezze strutturali dell’economia italiana e accompagnare il Paese su un percorso di transizione ecologica e ambientale”.

Be’, ci si sarebbe attesi che come obiettivo primario di un Piano di tal fatta – e proprio per la lezione impartitaci dalla pandemia – venisse posta la transizione ecologica, viatico per condurre a un sistema sostenibile dal punto di vista ambientale, economico e sociale, traguardo ineludibile e improcrastinabile al cui raggiungimento subordinare tutte le altre misure previste dal Piano. Che proprio per questa ampiezza e profondità avrebbe dovuto essere studiato e discusso con tutta la società civile e le sue rappresentanze, e non solo nel chiuso dei gabinetti romani.

E invece, ciò su cui finora ci si è concentrati – per quanto si è potuto apprendere da quanto filtrato nel dibattito pubblico – sembra essere la quantità di investimenti da assegnare a ognuno dei bracci del grande puzzle che si estende a partire dai sei pilastri indicati dal Next generation UE più che la loro qualità. Insomma, ciò che sembra mancare è la cornice generale che tenga assieme tutte le misure in un unicum coerente verso un traguardo chiaro, e impedisca a una mano di distruggere quello che l’altra ha costruito.

Spulciando qua e là emergono infatti le incongruenze di alcuni interventi, quando analizzati alla luce della loro sostenibilità.

Si prenda per esempio la voce “banda ultralarga e 5G”: a che serve ora il 5G? A garantire trasmissioni ad altissima definizione e più veloci, la possibilità che le auto possano fare a meno di un guidatore in carne e ossa, che il frigorifero di casa ci ricordi che cosa acquistare? Sono davvero queste le priorità per costruire un futuro sostenibile? E soprattutto, per favorire questa nuova tecnologia si è proposto di innalzare la soglia massima consentita per le radiazioni elettromagnetiche da 6 V/m (i limiti attuali in Italia) a 61 V/m. Ma perché non considerare un importante principio di precauzione tanto cruciale per la tutela della salute? Quella stessa salute oggi messa a così dura prova dal Covid? Si farà? Non si sa, ma il rischio c’è: nel PNRR infatti si legge: “è necessario utilizzare tutte le tecnologie più avanzate (Fibra, FWA, 5G) e adattare il quadro normativo in modo da facilitarne l’implementazione”. E qui davvero una mano farebbe l’opposto dell’altra.

Insomma, bisogna attendere e vedere il prodotto finale. Ma nei prossimi mesi e anni occorrerà vigilare sulla realizzazione dei 135 progetti previsti dal Piano.

Approfondimenti:

Testo PNRR: testo_pnrr.pdf

ASVIS: https://asvis.it/notizie-sull-alleanza/19-9226/segui-levento-asvis-sul-piano-nazionale-di-ripresa-e-resilienza-e-la-legge-di-bilancio-2021

Forum disuguaglianze e diversità: https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/wp-content/uploads/2021/01/Valutazioni_-ForumDD_PNRR.x74988.x96206.pdf

Legambiente: https://www.legambiente.it/rapporti-in-evidenza/per-unitalia-piu-verde-innovativa-e-inclusiva/

Autrice: Cinzia Tromba, referente Progetto Cambiamo-Semi di Scienza

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Pillole di sostenibilità https://www.semidiscienza.it/2021/03/02/pillole-di-sostenibilita-prima-puntata/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=pillole-di-sostenibilita-prima-puntata https://www.semidiscienza.it/2021/03/02/pillole-di-sostenibilita-prima-puntata/#respond Tue, 02 Mar 2021 17:39:23 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=1264

Oggi parliamo di sostenibilità della produzione di cibo e faremo riferimento ad alcuni scritti di Gabriele, aggiungendo qualche recente notizia e integrando con qualche ulteriore dato. Buona lettura! Seguiteci e aiutateci a dipingere insieme il nostro futuro!

Benvenuto Antropocene!

Nel sistema terrestre i nutrienti essenziali per la vita vengono continuamente riciclati, circolarmente, da micro e macrorganismi per poter essere riutilizzati da tutti gli esseri viventi a tutti i livelli della rete trofica: si parla di cicli biogeochimici, e ogni elemento chimico ha il suo. Anche una molecola di acqua ha un ciclo: si parla di ciclo idrologico. Tutte le attività svolte dall’umanità, piccole o grandi che siano, hanno un impatto sull’ambiente naturale e di conseguenza sui cicli biogeochimici. Le attività antropiche che hanno generato i grandi problemi globali quali il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità hanno anche alterato il ciclo di due elementi chimici essenziali per tutti gli esseri viventi come l’azoto e il fosforo (potete approfondire l’argomento ricercando sul motore di ricerca lo studio sui confini planetari portato avanti da Johan Rockström dello Stockholm Resilience Center e Will Steffen della Australian National University). Tutti questi processi si influenzano a vicenda, provocando una perturbazione molto significativa dell’equilibrio biologico, geologico, chimico e fisico dell’intero pianeta.

In questo contesto l’agricoltura impersona un ruolo molto particolare, in quanto l’attuale modello intensivo è al tempo stesso carnefice a vittima della crisi climatica, delle alterazioni del ciclo dell’azoto e del fosforo e del processo di degrado degli ecosistemi. Il modello industriale di produzione del cibo contribuisce al mutamento del clima con il 35% delle emissioni di anidride carbonica, metano e protossido di azoto, e consuma il 38% del suolo utile e il 70% dell’acqua; l’agricoltura intensiva ha già distrutto o trasformato radicalmente il 70% dei pascoli, il 50% delle savane, il 45% delle foreste decidue temperate e il 25% delle foreste tropicali. Nello stesso tempo il comparto agricolo subisce le conseguenze negative di tutti questi fenomeni, e vede seriamente minacciate le sue capacità produttive. Nell’ambito specifico della produzione zootecnica e ittica, gli allevamenti intensivi per la produzione di carne sono il settore che su molteplici fronti genera la maggiore quantità di effetti collaterali. Quanto agli stock ittici, il 48% di quelli atlantici e il 93% di quelli mediterranei è sovrasfruttato: alla fine di marzo 2019 l’Italia ha esaurito la sua produzione interna, e da quel momento in poi, fino alla fine dell’anno, ha dovuto dipendere interamente dall’importazione di pescato dai paesi in via di sviluppo. A partire dal 7 luglio 2019 la stessa condizione si è realizzata per l’intera Europa. Le strategie ormai irrimandabili finalizzate a migliorare la sostenibilità del nostro sistema ci obbligano a costruire e diffondere molto rapidamente dei modelli alternativi di produzione del cibo che possano fare a meno degli idrocarburi, rispettino criteri di alta efficienza e alta resilienza, funzionino con logiche di economia circolare, e siano attuabili anche in ambiti urbani e periurbani, onde poter contribuire all’autosufficienza alimentare dei grandi centri abitati nei quali oggi vive più della metà della popolazione mondiale.

L’Unione Europea definisce questi obiettivi come priorità da mettere in atto entro il traguardo cruciale del 2050.

Servono idee, ma soprattutto investimenti.

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L’economia circolare ai tempi delle medie https://www.semidiscienza.it/2020/12/21/leconomia-circolare-ai-tempi-delle-medie/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=leconomia-circolare-ai-tempi-delle-medie https://www.semidiscienza.it/2020/12/21/leconomia-circolare-ai-tempi-delle-medie/#respond Mon, 21 Dec 2020 19:00:26 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=1223 Care lettrici e cari lettori,

Questo articolo è speciale perché scritto da due studentesse e due studenti di una scuola media. Infatti, tra le tante attività di divulgazione che portiamo avanti, gli incontri nelle scuole sono quelli che ci danno maggiore gratificazione. Incontrare le generazioni protagoniste del prossimo futuro ci permette di stimolare la progettazione, la partecipazione e l’innovazione attraverso la discussione di alcune problematiche globali e le soluzioni per affrontarle. Due settimane fa ci siamo incontrati online con la scuola media San Lorenzo di Novara: abbiamo parlato di esaurimento delle risorse naturali e di economia circolare e abbiamo visto come la scienza possa essere applicata alla vita di tutti i giorni in modo da rendere sostenibile sia come utilizziamo direttamente le risorse sia come le sfruttiamo per produrre oggetti. Questo argomento ha suscitato molto interesse nei ragazzi, che hanno così ideato un progetto concreto di economia circolare, mettendo in pratica lo slogan “Pensare globale, agire locale”. Il consiglio direttivo dell’associazione ha deciso di pubblicare l’articolo di presentazione del progetto, premiando questi ragazzi volenterosi, motivati e innovatori .


Eccoci qui: Alessandro Garoni, Nicolò Padolazza, Matilde Villa, Camilla Zabarini. Siamo quattro studenti della scuola media salesiana San Lorenzo di Novara. Frequentiamo la terza media. Quest’anno la nostra insegnante di matematica e scienze, la professoressa Lavinia Velata, ci ha coinvolto in un progetto sull’economia circolare. Dopo aver assistito ad alcune lezioni su questo sistema economico, ci ha stimolato a immaginare una nostra proposta di azienda che applicasse i principi di tale economia.

Nella nostra ricerca, abbiamo conosciuto Orange Fiber, un’azienda italiana che, prima al mondo, ha brevettato un processo per produrre tessuti da scarti della produzione degli agrumi. Tale azienda è nata dall’idea di due ragazze siciliane che hanno creduto fermamente nel futuro della moda sostenibile. Noi siamo rimasti molto colpiti da questa realtà e abbiamo voluto elaborare un progetto che coinvolgesse il nostro territorio: le campagne novaresi. Novara è famosa in tutto il mondo perché ricca di risaie. Noi, ispirati da ciò che hanno fatto Adriana Santanocito e la sua amica Enrica Arena dagli scarti degli agrumi, abbiamo pensato di creare qualcosa con gli scarti del riso, prodotto simbolo della nostra provincia.  

Abbiamo scoperto che ogni anno in Italia si producono circa 900 mila tonnellate di riso e abbiamo calcolato che si co-producono anche 180 mila tonnellate di lolla che ogni anno devono essere eliminate e più di 1 milione di tonnellate di paglia di riso che ogni anno vengono bruciate. E se questi scarti fossero trasformati in qualcos’altro? Immaginate se tutti gli scarti del riso potessero essere recuperati e utilizzati. Sarebbe una cosa fantastica per il nostro pianeta che consuma così tante risorse naturali… Ecco come è nato il primo embrione di idea per RiceArt.

Abbiamo poi approfondito l’argomento, scoprendo che esistevano già alcune aziende che trasformano questi scarti della lavorazione del riso in prodotti per l’edilizia. Abbiamo “conosciuto” l’architetto Tiziana Monterisi che, con la sua RiceHouse, progetta materiali per l’edilizia dagli scarti del riso e abbiamo scoperto che anche il progetto RiceRes del CNR valorizza lolla e paglia di riso per la fabbricazione di pannelli per la bioedilizia. Insomma, già altri avevano avuto la nostra stessa idea. Nonostante ciò, non ci siamo scoraggiati. Gli scarti sono così tanti che poteva esserci materia prima anche per il nostro progetto. Ormai, infatti, ci eravamo “affezionati” all’idea di produrre qualcosa con queste materie… Anche se ancora non ci era chiaro cosa.

Poi è arrivato il lampo di genio: pensare di unire arte e design. Ispirati ancora una volta dalla Sicilia, abbiamo avuto l’idea di produrre dei vasi simili alle pregiate ceramiche “teste di moro”. Abbiamo pensato, però, di sostituire i mori con le teste di sculture famose. È nata così RiceArt.

La prima statua che ci è venuta in mente è stata quella della Libertà, la famosissima Miss Liberty. Poi subito abbiamo pensato al David di Michelangelo e così, via via, ci sono venute in mente le altre opere: la Sfinge, i Bronzi di Riace, la Venere di Milo.

Abbiamo immaginato di produrre i nostri oggetti usando ciò che avevamo imparato studiando il processo di RiceRes. La paglia, insieme a scarti di lana, trattata con una soluzione di soda rilascia la cheratina – una proteina – e dà origine a una pasta viscosa che è capace di prendere la forma desiderata. Abbiamo pensato così di usare questa pasta in stampi appositi per produrre in nostri oggetti di design. Da Rice House abbiamo invece imparato che si può utilizzare la lolla miscelandola con calce aerea e ottenere un materiale che era perfetto per rivestire i nostri oggetti. Così sono nati i prototipi dei nostri vasi.

Ci piacerebbe poter partecipare a varie manifestazioni ed eventi per presentare i nostri prodotti e cercare sponsor e finanziatori. Sogniamo addirittura di poter esporre a un evento del  FuoriSalone durante il Salone del Mobile del 2021.

Ovviamente siamo consapevoli che tutto ciò è solo un sogno, ma davvero ci piacerebbe lanciare la nostra linea di prodotti sostenibili ispirati alla scultura moderna perché ci entusiasma davvero tanto l’idea che RiceArt possa entrare nelle case di chiunque!

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Anatomia della balena (e delle risorse energetiche) https://www.semidiscienza.it/2020/03/03/anatomia-della-balena-e-delle-risorse-energetiche/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=anatomia-della-balena-e-delle-risorse-energetiche https://www.semidiscienza.it/2020/03/03/anatomia-della-balena-e-delle-risorse-energetiche/#respond Tue, 03 Mar 2020 13:58:09 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=876 1. Lo zeitgeist

Leggere – o rileggere, a seconda dei casi – il più celebre romanzo del “Rinascimento americano”, Moby Dick, o La balena di Herman Melville può essere arduo: il linguaggio è “barocco” agli occhi di noi moderni; le digressioni, per noi, “uomini sempre senza tempo”, possono essere sfinenti e poi… la Balena – vagheggiata, cacciata, immaginata, sognata come in incubo da Achab – arriva in ultimo e fa quello che deve, disintegrando il Pequod e uccidendo tutti, tranne la voce narrante che ci accompagna per tutto il romanzo, quella di Ismaele – possiamo tranquillamente fare spoiler, sono passati 169 anni.

Il romanzo, denso di riferimenti biblici – rilevati puntualmente nella sempreverde traduzione autorevole di Cesare Pavese, ripubblicata nella recente edizione Adelphi – è, in questo senso (nel senso della cruenza della vita di mare, delle battaglie che questi uomini conducevano con il “leviatano”, il mostro marino[1]) veterotestamentario: non c’è spazio per la pietà e le cose accadono (o non accadono) come se la volontà divina fosse sempre lì ben presente e netta a dirimere le questioni senza incertezze. Ma chi si aspetti un romanzo d’avventura o picaresco ha sbagliato libro: qui, si diceva, le digressioni non si contano e il romanzo stesso – nel solco di una tradizione ben nota che passa attraverso Le mille e una notte e il Decameron –rinvia fino alle ultime pagine l’esito di quel che accadrà.

Delle digressioni, quelle che ci sembrano scritte oggi e contribuiscono a fare di Moby Dick un classico, una riguarda il cibo e il rapporto cruento che, allora come ora, gli esseri umani hanno con le bestie che mangiano:

[…] non è forse soltanto a causa dell’estrema untuosità della balena che la gente di terra sembra considerare con ripugnanza il cibarsene. Sembra che in qualche modo ciò risulti dalla considerazione surriferita: che un uomo, cioè, mangi di una creatura marina appena uccisa, e per di più ne mangi alla sua stessa luce. Ma senza dubbio, il primo uomo che uccise un bue venne considerato assassino; magari venne impiccato; e se fosse stato processato da buoi, impiccato lo sarebbe stato di certo; e certo se lo sarebbe meritato, se un assassino si merita questo. Andate al mercato della carne la notte d’un sabato e guardate i mucchi di bipedi vivi che stanno a contemplare le lunghe file di quadrupedi morti. Non fa cadere i denti della mascella di un cannibale quello spettacolo? Cannibali? E chi non è cannibale? Vi dico che la passerà più liscia il figiano che abbia messo in sale nella sua cantina un magro missionario per far fronte a una carestia imminente; la passerà più liscia quel previdente figiano, vi dico, nel giorno del Giudizio, che non toccherà a te, incivilito e illuminato ghiottone, che inchiodi a terra le oche e banchetti di pâté de foie gras coi loro fegati gonfi.

Ma Stubb, Stubb mangia la balena alla luce del suo olio, no? e ciò si chiama aggiungere al danno le beffe, vero? Da’ un occhio al manico del tuo coltello, o incivilito e illuminato ghiottone che stai pranzando con bue arrosto; di che cos’è fatto quel manico? di che cosa, se non delle ossa del fratello del bue che stai mangiando? e con che cosa ti stuzzichi i denti, dopo che hai divorato quell’oca grassa? Con una piuma dello stesso volatile. E con che penna scrisse le sue circolari il segretario della Società per la Soppressione delle Crudeltà usate alle Oche? È appena un mese, al massimo due, che quella Società ha votato una decisione di non tollerare altre penne che d’acciaio.[2]

Un duro giudizio morale che si potrebbe applicare ancora oggi. E una visione – alimentata proprio dal “libro dei libri”, la Bibbia – secondo cui, almeno riferendoci a una interpretazione (diffusa) di alcuni passi, l’uomo è al vertice di una presunta piramide del creato: Dio, si legge in Genesi 2:18-24, vide l’uomo solo, e come prima compagnia gli creò gli animali. Ma l’uomo non vi si riconobbe. Anzi imponendo loro i nomi, secondo le categorie antiche, lì si vuol dire che l’uomo è diverso, superiore e “quasi” creatore del senso che gli animali debbono avere nell’habitat umano. Ecco il nocciolo della questione: l’animale è creato per esser d’aiuto all’uomo, per il suo vivere mondano, ma è un livello diverso, inferiore, subalterno. Tant’è che dopo il test dell’imposizione dei nomi, Dio riconosce che l’uomo è ancora solo e l’uomo stesso «non trovò [in essi] un aiuto che gli fosse simile» (Ibid., v. 20). Dobbiamo aspettare l’arrivo di Francesco d’Assisi per capovolgere la prospettiva e tornare ad essere creature (senzienti e quindi, almeno in teoria, responsabili) tra le creature.

Ma, che fossero “tempi duri”, era indubbio: la natura, prima di essere completamente soggiogata – attraverso scienza e tecnica – ai voleri dell’umanità, era matrigna e se da un lato dava, dall’altro pre(te)ndeva, talvolta anche molto. Se ci si pensa stiamo parlando di meno di due secoli fa eppure, per come è evoluta la storia nel seguito, sembrano passati millenni. Che fossero tempi duri ce lo dice un’altra storia che non ha nulla a che vedere con il romanzo, ma accadde un paio d’anni prima che il romanzo venisse pubblicato, ed è un’altra storia americana, quella della spedizione Donner[3].

La natura, matrigna, era però vista come fonte inesauribile di risorse. L’idea di “servizio ecosistemico” era di là da venire e forse ancora alcune delle moderne teorie economiche si basano sulla convinzione che le risorse (minerali, energetiche, di cibo – animale e vegetale) siano lì, inesauribili. Ancora una volta vale la pena citare il testo di Melville:

[…] siccome forse cinquanta di queste balene da osso vengono ramponate per un solo cachalot, qualche filosofo del castello di prora ne ha concluso che questo positivo massacro ha già decimato molto seriamente i battaglioni di quelle balene. Ma benché da qualche tempo a questa parte un bel numero, non meno di 13.000, ne siano state uccise annualmente soltanto dagli Americani sulla costa del Nord-ovest, pure ci sono considerazioni che rendono anche questa circostanza di poco o nessun conto come argomento d’opposizione nella faccenda.

Naturale com’è una certa incredulità riguardo all’abbondanza delle creature più enormi del globo, pure che cosa diremo ad Harto, lo storico di Goa, quando ci racconta che in una caccia il re di Siam prese 4.000 elefanti, e che in quelle regioni gli elefanti sono numerosi come le mandrie di bestiame nelle regioni temperate? E sembra che non ci sia ragione di dubitare che, se questi elefanti ormai cacciati per migliaia di anni da Semiramide, da Poro, ad Annibale e da tutti i monarchi successivi dell’Oriente, se questi sopravvivono là in grande numero, molto più potrà la grande balena sopravvivere a ogni caccia, dacché essa ha un pascolo per spaziare che è grande precisamente due volte l’intera Asia, le Americhe, l’Europa, l’Africa, la Nuova Olanda, e tutte le isole del mare messe insieme.[4]


[1] La locuzione «mostro marino» non è casuale: in un’epoca (ancora) timorata di Dio come quella, rifacendosi alla Bibbia troviamo almeno due citazioni in cui l’equivalenza è data: «e Dio creò le grandi balene (mostri marini)» (Genesi 1:21); «Son io forse il mare o una balena (mostro marino), perché tu mi metta accanto una guardia?» (Giobbe 7:12). In generale le balene – e il capodoglio in particolare – sono associate, anche nel romanzo di Melville, al Leviatano.

[2] Herman Melville, Moby Dick, o La balena, Adelphi, Milano, pp. 329-330.

[3] Non mi dilungo su questo episodio terribile, ma chi volesse approfondire può trovare una esaustiva voce su Wikipedia, all’indirizzo: https://it.wikipedia.org/wiki/Spedizione_Donner

[4] Melville, op. cit., p. 484.

2. Le balene salvate dal petrolio

Le balene – mostri marini e nemiche – quindi da cacciare e da cui estrarre il prezioso olio. D’altra parte la forza su cui si poteva contare, ai tempi di Moby Dick, era muscolare. Per le baleniere come il Pequod le si poteva aggiungere quella del vento, ma era davvero un lavoro fatto a mano e quindi improbo.

Il film Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick (2015, regia di Ron Howard), ha inizio nel 1850, anno in cui Herman Melville, in cerca di ispirazione per il suo nuovo romanzo, si reca a far visita all’anziano Thomas Nickerson, sull’isola di Nantucket (Massachusetts), con la speranza di riuscire a farsi raccontare del tragico naufragio della baleniera Essex, su cui Nickerson era in servizio come mozzo. Il vecchio marinaio in un primo momento si mostra riluttante, ma alla fine, spronato anche dalla moglie, decide di raccontare al suo ospite la vera storia del naufragio. La storia si dipana, tragica e imponente, e finisce con uno scambio di battute tra lo scrittore e Nickerson.

Poco prima di congedarsi, il vecchio marinaio della Essex constata che, probabilmente, il mondo della caccia alle balene del quale ha appena finito di narrare una dolorosa storia, presto cesserà di esistere perché, per quanto possa apparire incredibile, è appena giunta la notizia che in un’altra regione degli Stati Uniti, scavando con un particolare congegno meccanico, sia uscito (petr)olio dal terreno.

Lo scrittore risponde con una sorta di alzata di spalle e una specie di «chissà dove andremo a finire», e il film finisce.

Questo ci ricorda il motivo per cui la caccia alle balene fu un’attività così fiorente negli Stati Uniti tra il 1800 e il 1860: l’olio estratto dai cetacei serviva, come evidenziato più volte nel film, a rischiarare le buie notti di quell’America convinta che l’Uomo fosse il centro dell’universo per volontà divina e le povere balene dei mostri marini – come già accennato – con i quali Dio testava la sua forza. La scoperta del petrolio cambiò radicalmente la vita dell’umanità sul pianeta, ma in prima battuta scongiurò, almeno inizialmente, l’estinzione delle balene (Fig. 1).


Figura 1 – Andamento della produzione petrolifera e della cacciagione delle balene, fonte: https://ugobardi.blogspot.com/2014/11/la-piu-grande-storia-del-picco-mai.html

Questo ci introduce alla questione della rinnovabilità delle risorse naturali. In figura 2 sono riportati in scala logaritmica i tempi necessari per la rigenerazione delle risorse terrestri. Essendo la scala logaritmica, ogni intervallo corrisponde ad un fattore 10. Questo significa che ogni intervallo sulle ascisse nella figura corrisponde ad un numero di anni 10 volte più lungo di quello dell’intervallo precedente, ma ha, sul grafico, la stessa spaziatura.


Figura 2 – Tempi di rigenerazione delle risorse terrestri, riadattato da P. Bihouix , B. de Guillebon B., Quel futur pour les métaux?, EDP Sciences, 2010. Fonte: Luca Pardi, Il paese degli elefanti. Miti e realtà sulle riserve di idrocarburi in Italia, Lu::Ce edizioni, Massa, 2014.

Per il resto la lettura del grafico risulta abbastanza semplice: i rettangoli al suo interno rappresentano le diverse risorse e la loro lunghezza la loro esauribilità; sul margine destro è indicata la tipologia. Ogni accumulo è soggetto a variazioni quantitative a seconda del grado di sfruttamento a cui è sottoposto. I diversi stock sono per la maggior parte non rinnovabili da un punto di vista umano, cioè si ricostituiscono in tempi che superano di due o più ordini di grandezza la durata della vita umana rappresentata nella figura, come evidenziato dalla linea verticale tratteggiata.

Gli stock di acqua, ad esempio, hanno tempi di rigenerazione che vanno dai giorni (per l’acqua di ruscellamento), agli anni (per le falde freatiche), alle migliaia di anni (per le falde fossili). Agricoltura e allevamento hanno tempi di ricostituzione dipendenti dal tipo di attività.

La maggior parte dell’energia che la società utilizza riguarda i combustibili fossili i cui tempi di rigenerazione vanno dalle decine di milioni di anni, per gas e petrolio, alle centinaia di milioni anni per i diversi tipi di carbone. Le risorse minerarie hanno tempi di ricostituzione che, espressi in anni, variano entro nove ordini di grandezza, oscillando da alcuni anni, come per il sale da cucina, ai miliardi di anni per i minerali, la cui concentrazione dipende dai fenomeni tettonici. E, per i minerali, almeno in un caso acclarato – quello dell’escavazione marmifera, soprattutto nella zona di Massa-Carrara – siamo ormai al quasi completo esaurimento.

È in questo quadro che si deve iniziare a considerare lo sfruttamento delle risorse terrestri. Di norma le persone riescono a cogliere immediatamente il significato delle scansioni temporali indicate lungo l’asse delle ordinate nel grafico riprodotto nella figura 2, corrispondenti a circa 100 anni, ovvero a un arco temporale che ingloba le esperienze che ogni individuo ha del tempo: dalla vita quotidiana alla sua “dilatazione” in una dimensione storica. Il senso dei tempi biologici (qui indicati nel grafico lungo l’asse delle ascisse) e geologici (comparati con la dimensione storica dell’uomo) invece sfuggono totalmente alla comprensione della stragrande maggioranza degli individui.

Questa, ma non solo questa, la “causa psicologica” della scarsa percezione dei problemi di esaurimento delle risorse. Con Bardi:

C’è una ragione per cui questi eventi epocali non lasciano traccia nella percezione della gran parte delle persone. È perché tendiamo a vedere il mondo in termini romanzeschi, non in termini di fatti e dati. Percepiamo solo le cose che generano una reazione emotiva su di noi e per generare questa reazione ci deve essere una storia, un racconto. Potremmo dire che tutta la narrativa è una ricerca di qualcosa, ha a che fare col riuscire contro le difficoltà, ha a che fare con le trasformazioni che avvengono a causa di eventi drammatici. È questa trasformazione che fa risuonare la nostra mente con gli eventi descritti. Reagiamo agli eventi perché percepiamo una storia, non perché leggiamo i numeri scritti su una tabella. Pensate all’altro grande problema dei nostri tempi, il cambiamento climatico: ha un potenziale narrativo tremendo, non è solo che porterebbe con sé eventi drammatici, ma perché sentiamo qualcosa per il nostro pianeta. Percepiamo il fatto che rischiamo di distruggere l’ecosistema terrestre e sentiamo qualcosa per questo: è il racconto di un evento drammatico. È per questa ragione che oggi si discute tanto di “fantaclimatica” (cli-fi, in inglese).[5]

Ma col petrolio tutto è cambiato. Se c’è un segno inequivocabile dello “stato di salute” di una specie, questo è l’incremento della sua popolazione. Il grafico in figura 3 mostra due curve: una rappresenta la disponibilità di energia complessiva e l’altra l’incremento di popolazione proprio a partire dal 1800. Credo che si possa tranquillamente affermare che la prima (la disponibilità energetica) sia causa della seconda (l’incremento della popolazione).


Figura 3: La linea blu del grafico rappresenta il consumo energetico mondiale in esajoule [EJ] e la linea rossa tratteggiata l’incremento della popolazione. Fonte: dati pubblici elaborati dall’autore.

[5] Ugo Bardi, La più grande storia del picco mai scritta, sul blog «Effetto Risorse » all’indirizzo: https://ugobardi.blogspot.com/2014/11/la-piu-grande-storia-del-picco-mai.html

3. Conclusione: Moby Dick avrebbe potuto davvero distruggere il Pequod?

Abbiamo iniziato con la letteratura e con questa finiamo, ma… con un pizzico di scienza. Qualcuno si è chiesto: ma una balena come Moby Dick, identificata nel capodoglio (Physeter macrocephalus), sarebbe riuscita realmente a distruggere una baleniera? Alcuni ricercatori delle più diverse discipline si sono confrontati e ne è uscito un articolo scientifico[6] che, in sostanza, risponde affermativamente: un capodoglio ci sarebbe riuscito, magari dalla botta si sarebbe ripreso a fatica, ma sarebbe sopravvissuto.

La domanda è ovviamente molto controversa perché ci sono molte variabili di cui tener conto. È stata comunque oggetto di acceso dibattito almeno dai tempi del romanzo – che, pur romanzo, aveva bisogno di una sua plausibilità. Il testone di un capodoglio è qualcosa di bizzarro: «una delle strutture più strane nel mondo animale», scrive l’autrice principale dello studio, Olga Panagiotopoulou, esperta di anatomia, struttura ossea e meccanica dei grossi animali. Il motivo di questa stranezza è da tempo oggetto di studi.

I capodogli maschi possono essere lunghi fino a 18 metri: la fronte è un terzo della lunghezza e un quarto della massa corporea. Dentro ci sono due sacche piene di fluido, una sull’altra. L’organo dello spermaceti è quello sopra: non contiene sperma, ma la preziosa sostanza cerosa semiliquida per cui quelli come il capitano Achab andavano a caccia di balene. Il sacco in basso si chiama melone.

Ricerche precedenti stabiliscono che i sacchi servono per l’ecolocalizzazione: i cetacei si orientano emettendo suoni che vengono rimbalzati nell’ambiente circostante. Secondo altri studi, servono per galleggiare o a utilizzare i sonar per stordire le prede. L’idea che i capodogli utilizzino la testa come un ariete di sfondamento è stata diffusa sostanzialmente da Moby Dick, romanzo che abbiamo accennato essere ispirato alle leggende dell’Ottocento in cui i capodogli venivano accusati di aver affondare alcune baleniere, tra cui nel 1820 la Essex, salpata nel 1799 da Nantucket, in Massachusetts di cui film Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick tratta. Owen Chase, il primo ufficiale della nave, scrisse un libro che «descriveva la testa della balena come progettata in modo straordinario per questo tipo di attacco», racconta la Panagiotopoulou.

Questo accadeva l’attimo prima di divenire i padroni incontrastati del mondo. Tempi duri, si diceva, ma dove la nostra umana hybris poteva ancora essere messa in discussione da quella natura che si manifestava con la potenza della balena.


[6] Panagiotopoulou et al. (2016), Architecture of the sperm whale forehead facilitates ramming combat. «PeerJ», 4:e1895; DOI 10.7717/peerj.1895

Luciano Celi – Istituto per i Processi Chimico-Fisici, CNR di Pisa e Socio di Semi di Scienza

(http://www.cnr.it/people/luciano.celi)

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The Blue Acceleration https://www.semidiscienza.it/2020/01/29/the-blue-acceleration/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=the-blue-acceleration https://www.semidiscienza.it/2020/01/29/the-blue-acceleration/#respond Wed, 29 Jan 2020 13:50:28 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=807 La finanza e la pressione sulle risorse ittiche

Un team di ricercatori dello Stockholm Resilence Centre della
Stockholms Universitet ha appena diffuso lo studio
“The Blue Acceleration: The Trajectory of Human Expansion
into the Ocean”, il cui autore principale è Jean-Baptiste Jouffray,
che lavora anche per il Global Economic Dynamics and the
Biosphere Academy Programme dell’Accademia Svedese
delle Scienze. Questo studio documenta la continua accelerazione
dell’enorme pressione che gli esseri umani esercitano sugli
oceani in termini di sfruttamento di risorse (idrocarburi, sabbia,
ghiaia, pesce, minerali, turismo, trasporti marini, dissalazione, ecc).

Jouffray è anche l’autore dello studio “Leverage points in the
financial sector for seafood sustainability”, pubblicato nel
2019 su Science Advances, dal quale risulta che sebbene
quasi il 90% della pesca mondiale sia ormai pienamente
sfruttata o sovrasfruttata, e si preveda che la domanda di
pescato cresca del 70% entro il 2050, dall’esame di quasi
un decennio di informazioni “non è stato possibile trovare
notizie di un solo prestito bancario all’industria ittica che
includesse criteri di sostenibilità”.

I prestiti bancari sono il modo principale con il quale le
compagnie ittiche finanziano le loro operazioni. Derivano
da accordi tra un prestatore e un mutuatario (Loan Covenants)
e vietano al mutuatario un certo comportamento: se venissero
incorporati dei criteri di sostenibilità nei Loan Convenants, le banche
potrebbero svolgere un ruolo chiave nel promuovere una rapida
trasformazione verso pratiche sostenibili, e le regole di quotazione
in borsa potrebbero ridurre significativamente la pressione sulle
risorse ittiche.

La maggior parte delle società presenti in borsa tra le 100 più grandi
aziende ittiche del mondo sono quotate in una manciata di borse:
la sola Tokyo Stock Exchange concentra il 53% delle entrate
delle compagnie ittiche quotate, mentre le quattro maggiori
(Tokyo, Oslo, Corea e Thailandia) rappresentano insieme l’86%.

Dallo studio “Transnational Corporations as ‘Keystone Actors’
in Marine Ecosystems” pubblicato su PLOS ONE nel 2015,
risulta che 13 Corporations controllano l’11–16% della pesca
marittima globale, e il 19–40% degli stock ittici più grandi e
preziosi del mondo.

DA CONSULTARE:

Jouffray et al., 2020, “The Blue Acceleration:
The Trajectory of Human Expansion into the Ocean”
http://dx.doi.org/10.1016/j.oneear.2019.12.016

Press release dello studio
https://www.sciencedaily.com/releases/2020/01/200124112931.htm

Recensione in italiano dello studio
http://www.greenreport.it/news/energia/blue-acceleration-la-pressione-umana-sugli-oceani-non-mostra-nessun-segno-di-rallentamento/
che riporta dati, riferimenti e spiegazioni anche a proposito dei
succitati “Transnational Corporations as ‘Keystone Actors’
in Marine Ecosystems”
https://doi.org/10.1371/journal.pone.0127533
e “Leverage points in the financial sector for
seafood sustainability”
https://advances.sciencemag.org/content/5/10/eaax3324

Il Team di Cambiamo (http://www.cambiamo.org/html/index.php) in collaborazione con il team di Semi di Scienza

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Crescita, progresso e bilanci https://www.semidiscienza.it/2019/12/03/crescita-progresso-e-bilanci/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=crescita-progresso-e-bilanci https://www.semidiscienza.it/2019/12/03/crescita-progresso-e-bilanci/#respond Tue, 03 Dec 2019 18:26:00 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=778 Il 18 Marzo 1968, presso l’Università del Kansas, Robert Kennedy pronunciò un discorso nel quale tra gli altri argomenti evidenziava l’inadeguatezza del prodotto interno lordo (PIL) come indicatore del benessere delle nazioni economicamente sviluppate. Tre mesi dopo venne ucciso durante la campagna elettorale che lo avrebbe probabilmente portato a diventare Presidente degli Stati Uniti d’America.

Qui di seguito un estratto del suo discorso del 1968:

” Ormai da troppo tempo sembriamo trascurare i valori individuali e quelli collettivi a favore del semplice accumulo di beni materiali.

Oggi il nostro prodotto interno lordo supera gli 800 miliardi di dollari l’anno. Ma se vogliamo giudicare gli Stati Uniti da quello, dobbiamo tenere presente che il prodotto interno lordo include l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per ripulire le nostre strade dalle carneficine.

Calcola le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che le forzano. Tiene conto della distruzione delle sequoie e della scomparsa delle meraviglie della natura dovute alla crescita selvaggia. Include il napalm, le testate nucleari, e i mezzi blindati usati dalla polizia per sedare le rivolte nelle nostre città. Tiene conto dei fucili e dei coltelli dei criminali, e dei programmi televisivi che glorificano la violenza, per poi vendere giocattoli violenti ai nostri bambini.

Il prodotto interno lordo non calcola però la salute dei nostri figli, la qualità della loro educazione, o l’allegria dei loro giochi. Non tiene conto della bellezza della nostra poesia, della solidità delle nostre famiglie, dell’intelligenza del dibattito pubblico, o dell’onestà dei nostri governanti. Non misura nè la nostra intelligenza nè il nostro coraggio, nè la nostra saggezza nè la nostra conoscenza, nè la nostra compassione nè la devozione per il nostro paese.

Misura di tutto, in breve, tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani.”

Sul tema del rapporto tra consumo materiale e benessere economico, sono estremamente significativi i dati di uno studio realizzato da un team di ricercatori statunitensi, australiani e britannici, che è stato pubblicato nel 2013 su Ecological Economics: in questa ricerca vengono analizzate le stime del PIL tra il 1950 e il 2003, per 17 paesi (Australia, Austria, Belgio, Cile, Cina, Germania, Giappone, Gran Bretagna, India, Italia, Nuova Zelanda, Olanda, Polonia, Svezia, Thailandia, Usa e Vietnam) nei quali vive il 53% della popolazione mondiale, e che messi insieme producono il 59% del PIL planetario. La conclusione è che, mentre il prodotto interno lordo mondiale è più che triplicato dal 1950, il benessere economico, così come stimato dal GPI (Genuine Progress Indicator, ovvero Indice di Progresso Autentico), è in realtà diminuito a partire dal 1978: in sostanza, già da 35 anni i costi della crescita economica hanno superato i vantaggi da essa apportati.

Il picco del benessere (1978) coincide, tra l’altro, con il momento in cui l’impronta ecologica dell’umanità (ovvero i consumi mondiali della popolazione) ha raggiunto, e poi iniziato progressivamente a superare la biocapacità del pianeta (ovvero la capacità naturale della Terra di rigenerare le risorse consumate). Oggi la specie umana preleva annualmente il 60% in più di quanto il pianeta riesce a riprodurre.

Nel 2019 il bilancio ecologico annuale del pianeta è andato in passivo (Earth Overshoot Day) dopo la data del 29 luglio, nei giorni successivi le risorse consumate causano gravi conseguenze sulla vitalità e gli equilibri degli ecosistemi e sulla stabilità di tutto il Pianeta.

Gabriele Porrati, Presidente della Cooperativa Onlus Cambiamo e Yuri Galletti, Presidente di Semi di Scienza.

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SuperEnalotto…chi ha vinto? https://www.semidiscienza.it/2019/09/14/superenalottochi-ha-vinto/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=superenalottochi-ha-vinto https://www.semidiscienza.it/2019/09/14/superenalottochi-ha-vinto/#respond Sat, 14 Sep 2019 21:59:09 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=642 Martedì 13/08/2019 per un fortunato lodigiano è stato un giorno indimenticabile, uno di quei giorni che ti cambiano letteralmente la vita: 209.160.441€ vinti in un solo colpo e con un semplice biglietto da 2€!

Il SuperEnalotto è davvero una lotteria fantastica! Giocare costa poco, basta 1€ e si vince spesso, molto spesso. È sufficiente indovinare 2 numeri tra i 6 estratti per vincere un premio e la probabilità che questo accada è di 1 su 22
Pensate a una partita di calcio: se tutti i giocatori in campo decidessero di partecipare alla lotteria, uno di essi (mediamente) vincerebbe il premio minimo…mica male! Al diminuire poi della probabilità aumenta il premio in denaro fino ad arrivare al Jackpot milionario che ci si aggiudica indovinando tutti i 6 numeri estratti. E questo avviene con probabilità di 1 su 622.630.614.
Ma questo numero è grande? Ma grande quanto? Considerate un comune smartphone alto circa 14cm e supponete di averne 622.630.614 tutti uguali, tra i quali c’è il vostro. Disponeteli sulla linea dell’equatore consecutivamente l’uno all’altro: farete più di due volte il giro della terra. Adesso immaginate di far girare il nostro pianeta come se fosse un mappamondo e ad un certo punto di fermarlo e scegliere uno degli smartphone. Ecco, fare 6 al SuperEnalotto ha la stessa probabilità di aver ritrovato così il vostro smartphone. 
Insomma, vincere al SuperEnalotto non è un evento impossibile, ma è molto, molto e molto probabile che a vincere non sarete voi.

Ma veniamo al dunque, ora la matematica ci viene in soccorso. Quanto valgono i premi? I premi in palio dipendono da quanti giocatori ci sono, anzi, dall’incasso delle giocate, cioè da quanto i giocatori spendono ad ogni estrazione. Infatti solo il 60% dell’incasso costituisce il montepremi e viene ripartito tra i vari premi nel seguente modo:

  • il 40% a chi indovina 2 numeri 
  • il 12,8% a chi indovina 3 numeri
  • il 4,2% a chi indovina 4 o 5 numeri
  • il 13% a chi indovina 5 numeri e il numero jolly
  • il 17,4% a chi indovina 6 numeri
  • il restante 8,4% viene riservato ai premi istantanei

È evidente come la grande maggioranza dei premi siano destinati a vincite basse che hanno però una maggiore probabilità di verificarsi. Questo accorgimento, tipico del gioco d’azzardo, aumenta l’affezione del pubblico giocante e fortifica le loro speranze di successo.

Se più giocatori indovinano la stessa quantità di numeri, il premio viene suddiviso in parti uguali (se lo ricorderanno bene i 70 giocatori che il 30/10/2010 si divisero i 177.729.043,16€ del jackpot in parti di 2.538.986,33€). 

Il 40% dell’incasso finisce invece nelle tasche dell’Agenzia delle Entrate (28,27%), delle ricevitorie (8%) e della Sisal (3,73%), come mostrato nel seguente grafico.

Questa quindi la ripartizione complessiva di tutto l’incasso delle giocate:

Curiosando sul sito superenalotto.it, tra “utilissime” statistiche dei numeri più frequenti, di quelli meno frequenti e dei cosiddetti ritardatari, si possono trovare molte estrazioni passate e ho deciso di fare qualche conto. Il jackpot milionario, cioè il premio assegnato a chi indovina tutti i 6 numeri, non veniva vinto dall’estrazione del 17/04/2018 con oltre 130 milioni di euro. Nell’estrazione successiva (due giorni dopo) il jackpot era di 23.832.123€ ed è cresciuto fino ai 209.160.441€ poi vinti il 13/08/2019. In questo intervallo temporale (dal 19/4/2018 al 13/8/2019) il jackpot è cresciuto di 185.328.318€, che, come detto in precedenza, corrisponde al 17,4% del montepremi. 
Questo significa che in circa 16 mesi sono stati giocati al SuperEnalotto 1.775.175.459,78€ … quasi 2 miliardi di euro in soli 16 mesi!

Tenendo conto della percentuale spettante all’Agenzie delle Entrate è quindi facile calcolare che ben 501.842.102,48€ sono finiti nelle casse dello Stato. A questa somma si deve aggiungere una trattenuta fiscale dell’8% per tutte le vincite fino a 500€, e del 12% sulla quota eccedente i 500€ (che solo per l’ultima vincita milionaria corrisponde a 25.099.192,92€!)…insomma in totale circa il triplo della cifra vinta dall’ultimo fortunato giocatore. 

Chi ha vinto quindi al SuperEnalotto?

Prof. Marco Reho 

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