Inquinamenti – Semi di Scienza https://www.semidiscienza.it Sat, 28 Sep 2024 10:55:01 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.8.10 https://www.semidiscienza.it/wp-content/uploads/2019/01/cropped-Semi-di-scienza-1-32x32.png Inquinamenti – Semi di Scienza https://www.semidiscienza.it 32 32 Uno sguardo ai PFAS https://www.semidiscienza.it/2024/09/28/uno-sguardo-ai-pfas/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=uno-sguardo-ai-pfas https://www.semidiscienza.it/2024/09/28/uno-sguardo-ai-pfas/#respond Sat, 28 Sep 2024 10:42:43 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=2944 di Matteo Bo – socio di Semi di Scienza

I PFAS, acronimo di sostanze perfluoroalchiliche, è un gruppo di composti chimici di sintesi – ovvero creati dall’uomo – che sono utilizzati in moltissimi campi e che stanno vedendo un crescente interesse nel dibattito pubblico per via degli effetti sulla salute e sull’ambiente che generano o che possono generare.

In questo articolo, che non pretende di essere esaustivo, affronteremo alcuni dei punti “salienti” di un argomento che è molto complesso ma che merita di essere esposto anche sulle pagine del nostro Blog per descrivere almeno in prima battuta le principali caratteristiche di queste sostanze ad oggi ancora poco conosciute seppur dalla storia quasi centenaria.

Alla fine degli anni ’30, infatti, nel corso dei processi di industrializzazione del PTFE fu scoperto per errore – come spesso accade nelle scoperte scientifiche – un fluoropolimero, ovvero una catena di atomi di carbonio con fluoro, dalle caratteristiche idrorepellenti e tensioattive. Inizialmente utilizzato per rendere impermeabili i carri armati durante la Seconda guerra mondiale, a partire dagli anni ’50, l’azienda chimica DuPont ne sviluppò un prodotto commerciale noto come Teflon. Nel corso degli anni, a quello che è a tutti gli effetti il più famoso tra i PFAS, furono affiancati centinaia di composti riconducibili allo stesso gruppo ed utilizzati in varie applicazioni civili e industriali: lubrificanti, antiaderenti per pentole e padelle, schiume anti-incendio, guarnizioni, refrigeranti, pesticidi, prodotti di cosmesi e altro.

Immagine di una padella antiaderente

Questi fluoropolimeri sono accumunati dalla loro proprietà idrorepellenti, oleorepellenti e tensioattive. Per effetto delle loro lunghe catene di carbonio, sono inoltre caratterizzati da una fortissima persistenza che li rende duraturi nel tempo ma anche diffusi nello spazio e quindi all’interno dell’ambiente e della catena alimentare. La gran parte dei PFAS sono infatti resistenti all’idrolisi, alla biodegradazione, alla fotolisi e ad altri processi di ossidazione naturale. Possono essere degradati solo termicamente ma a temperature pari a 1200-1300 °C, valori che non sempre vengono nemmeno raggiunte all’interno degli inceneritori.

Per via dell’ampiezza dei composti ricadenti nel gruppo di PFAS, a cui si aggiungono continuamente nuovi prodotti di sintesi, ad oggi vi è ancora quindi la necessità di uno sviluppo più ampio della normativa e della tecnica necessarie a definirne sia l’impiego sia le modalità di campionamento, analisi e studio dei rischi per la salute. Quest’ultimi sono noti a livello globale da circa 50 anni, come racconta il film Dark Waters con Mark Ruffalo – uscito in Italia nel 2020 con il titolo “Cattive Acque” – che racconta la causa intentata negli anni ’70 contro la DuPont in Virginia (USA).

L’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) nel 2023 ha classificato come cancerogeni per l’uomo i PFOA e i PFOS, tra i più noti e storici PFAS in circolazione. Su composti più recenti come C6O4 e ADV le ricerche sono ancora in corso e dovremo attendere ancora qualche tempo per meglio comprenderne le ricadute. Tra i bersagli identificati vi sono il fegato, in cui si verifica un processo di bioaccumulo, e i reni, che tendono a trattenerli anziché espellerli con l’urina. Sono stati poi riscontrati effetti fisiologici sul sistema immunitario e in particolare sulla regolazione ormonale.

Per quanto riguarda la diffusione di questi inquinanti in ambiente, in diversi casi nel mondo le concentrazioni più elevate sono state rilevate in prossimità di stabilimenti che li producono e, in seconda battuta, in stabilimenti che li lavorano per creare prodotti destinati alla commercializzazione. I PFAS si trovano infatti sia nel prodotto finito (e nella relativa degradazione) sia in prodotti intermedi. In analogia con altri inquinanti sono quindi in genere le popolazioni più prossime agli stabilimenti e i lavoratori che vi operano all’interno ad essere potenzialmente maggiormente esposti a PFAS. Sono inoltre stati rilevati presso siti dove vengono utilizzati grossi quantitativi di schiume antincendio come nel caso dell’aeroporto militare di Ronneby in Svezia.

In Italia, il caso più noto è quello della contaminazione della falda e dei corpi acquiferi superficiali a causa delle attività dell’azienda Miteni in Veneto a partire dagli anni ‘60. Un caso che ha portato nel 2018 alla dichiarazione dello stato di emergenza da parte del Consiglio dei ministri con il divieto al consumo di acqua potabile in 30 comuni tra le province di Vicenza, Verona e Padova per una popolazione di circa 350 mila persone interessate.

La loro persistenza ha tuttavia portato a rilevarli anche in corsi d’acqua, falde acquifere e nel sangue umano in aree non direttamente interessate dalla loro produzione o trasformazione. In questo senso, un interessante e ormai storico studio del CNR presentato nel 2011 ha definito i primi contorni sulla contaminazione nella matrice acque cui sono seguiti studi di approfondimento tutt’ora in corso in varie regioni del Bacino Padano sia sulla medesima matrice acqua sia sull’aerodispersione dei PFAS in aria ambiente.

Ad oggi risulta quindi necessario il monitoraggio e lo studio sugli effetti dei principali PFAS con un occhio a quelli di nuova generazione maggiormente diffusi e una sorveglianza dei siti di produzione e lavorazione principali. Per quanto di difficile riscontro nel mercato, ove possibile nella quotidianità potrebbe risultare un’azione efficace di auto-tutela la ricerca di prodotti “PFAS-free” o la scelta di alternative che intrinsecamente non comportino la necessità di prodotti che potrebbero contenerli.

Bibliografia:

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https://www.semidiscienza.it/2024/09/28/uno-sguardo-ai-pfas/feed/ 0
“Profili Antropici”: risultati del progetto https://www.semidiscienza.it/2023/12/31/si-e-concluso-il-progetto-di-citizen-science-profili-antropici/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=si-e-concluso-il-progetto-di-citizen-science-profili-antropici https://www.semidiscienza.it/2023/12/31/si-e-concluso-il-progetto-di-citizen-science-profili-antropici/#respond Sun, 31 Dec 2023 16:23:31 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=2635

Si è concluso il progetto di Citizen Science “Profili Antropici”, finanziato dall’8 per Mille Chiesa Valdese, grazie al quale abbiamo quantificato i rifiuti abbandonati su tre spiagge caratterizzate da diverse condizioni ambientali e di utilizzo da parte dei cittadini lungo la costa toscana e individuato possibili misure di regolamentazione che possono essere adottate dagli amministratori locali.

Le tre spiagge monitorate sono state Bocca di Serchio (Marina di Vecchiano, PI), Cala del Leone (LI), Lillatro (Rosignano, LI).

La maggior parte dei rifiuti trovati sono oggetti o frammenti di oggetti in plastica, e a ogni campionamento e in ogni spiaggia è stata superata la soglia precauzionale della Strategia marina europea per il buono stato ecologico: 20 rifiuti /100m.

L’inquinamento tossico da rifiuti di plastica mina la salute umana, contribuisce alla perdita di servizi ecosistemici e culturali e genera cambiamenti ambientali dannosi su larga scala e a lungo termine, mettendo a rischio la sostenibilità degli ecosistemi marini e costieri. Per essere affrontato, richiede l’adozione di misure normative a livello internazionale, nazionale e locale. L’identificazione degli oggetti maggiormente presenti nel marine litter è essenziale per definire le priorità delle politiche ambientali al fine di prevenire la dispersione della plastica e promuovere un’economia circolare.

Abbiamo condiviso i dati raccolti nell’ambito del progetto Profili Antropici con le tre amministrazioni comunali (Marina di Vecchiano, Livorno, Rosignano) e sottomesso un abstract per la X edizione del Simposio Internazionale “Il Monitoraggio Costiero Mediterraneo: problematiche e tecniche di misura” organizzato dall’Istituto di BioEconomia del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-IBE) in collaborazione con la Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale (SISEF), che si terrà a Livorno dall’11 al 13 Giugno 2024 presso il Museo di Storia Naturale del Mediterraneo.

Di seguito i risultati del progetto in forma sintetica:

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Accordo sulla plastica: ora serve ridurre i livelli insostenibili di produzione e consumo* https://www.semidiscienza.it/2022/03/09/accordo-sulla-plastica-ora-serve-ridurre-i-livelli-insostenibili-di-produzione-e-consumo/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=accordo-sulla-plastica-ora-serve-ridurre-i-livelli-insostenibili-di-produzione-e-consumo https://www.semidiscienza.it/2022/03/09/accordo-sulla-plastica-ora-serve-ridurre-i-livelli-insostenibili-di-produzione-e-consumo/#respond Wed, 09 Mar 2022 08:35:02 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=1585 Il 2 marzo la quinta Assemblea dell’Ambiente delle Nazioni Unite (UNEA5) ha raggiunto un accordo storico e concordato un mandato per negoziare un trattato legalmente vincolante che affronti l’intero ciclo di vita della plastica, dall’estrazione di petrolio e gas, alla produzione e smaltimento post-consumo. Un Comitato Internazionale di Negoziazione (INC) sarà incaricato di redigere e ratificare il trattato entro il 2024.

Ambiente, clima e salute: gli obiettivi del patto sulla plastica

Secondo l’accordo raggiunto dalle parti, il trattato coprirà l’inquinamento da plastica in ogni ambiente, terrestre e marino, e sarà accompagnato da un sostegno finanziario e tecnico, compreso un organismo scientifico che lo consiglierà. Il Comitato Internazionale di Negoziazione potrà aggiungere nuovi argomenti rilevanti che non sono stati discussi o che hanno ricevuto poca attenzione nei negoziati attuali, come gli impatti sul clima, le sostanze tossiche e la salute. Il mandato riconosce, per la prima volta in una risoluzione ambientale, i raccoglitori di rifiuti come importanti fonti di conoscenza e competenza il cui coinvolgimento sarà vitale per risolvere la crisi da rifiuti di plastica. Questo rappresenta un progresso innovativo per una transizione equa che avrà un impatto sulla vita di milioni di persone.
L’aspetto più significativo del mandato è quello di raccomandare misure per promuovere la produzione e il consumo sostenibili delle materie plastiche, compresi, tra l’altro, la progettazione dei prodotti e la gestione ecologica dei rifiuti, anche attraverso approcci di efficienza delle risorse e di economia circolare. A oggi la produzione di plastica è destinata a quasi quadruplicare entro il 2050 e a occupare il 10-13% del bilancio globale del carbonio, mettendo in pericolo la possibilità di contenere il riscaldamento terrestre entro 1,5°C.

In cerca di soluzioni vere per ridurre la produzione di plastica

Nei mesi e nei giorni precedenti l’UNEA5, la società civile ha mostrato un sostegno schiacciante per un trattato globale e vincolante sulla plastica, che è stato chiesto da oltre 1000 gruppi della società civile, 450 scienziati che lavorano sull’inquinamento da plastica, e più di un milione di individui in tutto il mondo. Così come nel caso di altre sfide ambientali globali quali la perdita di biodiversità e il cambiamento climatico, la causa di fondo del problema dell’inquinamento da plastica è radicata negli attuali livelli insostenibili di produzione e consumo. Un trattato che metta delle restrizioni sulla produzione, l’uso o il design della plastica avrà un impatto sulle compagnie petrolchimiche che producono plastica vergine, e sui giganti dei beni di consumo che vendono migliaia di prodotti in imballaggi monouso. Durante le fasi di negoziazione del trattato sarà necessario continuare con la pressione della società civile per evitare che l’industria tenti di inserire false soluzioni e annacquare il trattato.


Il trattato dovrà promuovere la ricerca e lo sviluppo di soluzioni innovative di riuso, ricarica, tradizionali e senza plastica, assicurando una base di prove sufficiente per evitare sostituzioni deplorevoli tra oggetti in plastica monouso e oggetti monouso fatti di altri materiali. Materiali alternativi ai polimeri plastici tradizionali possono infatti avere anch’essi impatti negativi sulla biodiversità e contribuire al riscaldamento terrestre tramite le emissioni durante il loro ciclo di vita. Le decisioni su come ridurre l’inquinamento da plastica dovranno essere basate su solide prove scientifiche.


L’inquinamento che deriva dalla sovrapproduzione di plastica è irreversibile. A causa dei suoi effetti tossici mette in pericolo la salute umana, contribuisce alla perdita di biodiversità, e aggrava il cambiamento climatico. Un trattato globale sulla plastica che aderisca al mandato dell’UNEA5 si unirebbe al protocollo di Montreal e all’Accordo di Parigi come una delle leggi ambientali internazionali più significative nella storia del mondo. Il lavoro è appena iniziato.

Autrice: Tosca Ballerini – membro del consiglio direttivo di Semi di Scienza

*articolo apparso precedentemente su Materia Rinnovabile

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Il buco dell’ozono https://www.semidiscienza.it/2021/09/21/il-buco-dellozono/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=il-buco-dellozono https://www.semidiscienza.it/2021/09/21/il-buco-dellozono/#respond Tue, 21 Sep 2021 18:09:42 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=1459 In questo articolo parliamo di un tema ancora purtroppo attuale: l’impoverimento dell’ozono della stratosfera, comunemente noto come “buco dell’ozono”.

Come premessa è opportuno ricordare che la presenza “benefica” dell’ozono negli strati alti dell’atmosfera (20-30 km) non deve essere confusa con l’inquinamento da ozono all’altezza del suolo, che provoca irritazione alle nostre vie respiratorie soprattutto in periodo estivo (il che ci porta a ricordare che la scarsa qualità dell’aria non è un problema solo invernale). L’ozono stratosferico, infatti, genera una sorta di schermo dalla radiazione solare ultravioletta proteggendo il pianeta dai potenziali danni permanenti alle cellule animali (e quindi anche umane) e dagli effetti nocivi sulla crescita dei vegetali. Una riduzione dell’ozono in stratosfera comporta quindi l’arrivo di un maggior quantitativo di raggi UV al suolo.

L’uomo, liberando in atmosfera sostanze chiamate ODS (Ozone Depleting Substances) quali i noti “CFC” (impiegati come refrigeranti, solventi e agenti propellenti nell’industria e nella vita di tutti i giorni) ha determinato negli anni l’assottigliamento di questo schermo protettivo in alcune aree del pianeta.

Tra quelle più fragili vi è il Polo Sud, che con le sue condizioni ambientali estreme vede ogni anno un drastico calo dello spessore dello strato di ozono al termine dell’inverno polare (con il ritorno di una maggior radiazione solare). Al Polo Nord, questa problematica è generalmente meno comune grazie alla minore intensità e durata del freddo in stratosfera per effetto delle correnti oceaniche (sotto i -80°C si generano le nubi stratosferiche polari che innescano i meccanismi chimici causa della deplezione dell’ozono).

Nonostante il Protocollo di Montreal del 1987, che ha portato ad alcuni segnali di “guarigione”, la problematica non è ancora risolta poiché queste sostanze sono tuttora circolanti in atmosfera. Nel 2020 così come nel 1997 e nel 2011 si sono generati dei “buchi” nel Polo Nord che verso la primavera si sono dispersi come masse d’aria arrivando fino all’Europa.

Da uno studio recente a cui hanno partecipato il CNR e l’ARPA Valle d’Aosta (The 2020 Arctic ozone depletion and signs of its effect on the ozone column at lower latitudes, consultabile all’indirizzo https://rdcu.be/cxWkt) emerge che nel nord Italia si sono verificati valori di radiazione UV superiori alla media nel periodo compreso tra aprile e maggio 2020. I ricercatori affermano che si tratti di “un evento raro, ma che potrebbe diventare sempre più probabile col riscaldamento globale” e che la problematica è “fortunatamente tornata ai suoi valori tipici in poche settimane e le variazioni osservate nei mesi di aprile e maggio 2020 (un aumento di circa il 20%) non devono destare eccessiva preoccupazione, sia per la durata limitata del fenomeno sia perché oggi si dispone di tutta l’informazione necessaria per proteggerci”.

L’evento, tuttavia, è rappresentativo in ottica scientifica poiché dalle sei stazioni europee di monitoraggio (dalle Svalbard a Roma passando per Aosta) è stato possibile ricostruire il movimento delle masse povere di ozono dal Polo Nord fino al Mediterraneo. I dati hanno confermato l’origine artica dell’evento ma hanno inoltre evidenziato, nella complessità del fenomeno, il verificarsi di ulteriori interferenze e sinergie locali nelle maggiori radiazioni UV registrate nel periodo. Secondo i ricercatori, una delle cause è imputabile alla riduzione del particolato al suolo, in grado anch’esso di assorbire i raggi UV, per effetto del lockdown. In Valle d’Aosta, alla tipica risalita degli inquinanti atmosferici dalla Pianura Padana (che ha compensato parte della riduzione delle emissioni durante il lockdown), la radiazione si è riscontrata elevata anche per effetto di alcune giornate serene e secche su tutta l’Europa nella primavera 2020. È opportuno ricordare, come citato dall’ARPA, che per l’incidenza della radiazione UV al suolo, “alcuni studi evidenziano un possibile ruolo delle emissioni da traffico aereo sull’ozono a quote intermedie (libera troposfera)”.

Infine, abbiamo citato poco fa l’interferenza del cambiamento climatico. Pare, infatti, che un contributo a una più frequente formazione del buco dell’ozono artico sia imputabile all’effetto serra (ovvero all’innalzamento delle temperature al suolo) che innesca un contrapposto raffreddamento della stratosfera, alla radice di tale deplezione. Gli autori concludono che anche attraverso il monitoraggio in continuo della radiazione UV si potranno osservare i rischi a livello locale connessi ai fenomeni globali complessi.

Autore: Matteo Bo – socio, ingegnere ambientale

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Inquinamento luminoso https://www.semidiscienza.it/2021/05/03/inquinamento-luminoso/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=inquinamento-luminoso https://www.semidiscienza.it/2021/05/03/inquinamento-luminoso/#respond Mon, 03 May 2021 06:59:43 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=1375 La scarsa visione notturna degli esseri umani e la primitiva paura del buio si riflettono nella necessità di utilizzare la luce artificiale per illuminare il proprio ambiente. L’illuminazione per esterni senza dubbio contribuisce al miglioramento delle opportunità pratiche per gli sviluppi sociali ed economici.

Nell’ultimo mezzo secolo l’illuminazione delle città è aumentata esponenzialmente. Si pensa che in tutto il mondo siano presenti più di 100 milioni di punti luce, con un consumo annuo pari a circa 200TWh. Nei piccoli centri, l’illuminazione costituisce circa il 25% del bilancio, cioè il 50% della bolletta elettrica.

Al di là delle risorse finanziarie ed energetiche che assorbe, l’illuminazione artificiale degli spazi urbani inquina le nostre notti e così le stelle scompaiono. A parte questo, la comunità scientifica sta studiando gli impatti diretti e indiretti dell’illuminazione artificiale sulla biodiversità. L’adattamento biologico di tutte le specie animali alle condizioni di luce naturale si è evoluto nel corso di miliardi di anni. Diversi studi sperimentali hanno dimostrato che la luce artificiale disturba gli ecosistemi e potrebbe giocare un ruolo significativo nel declino di specie i cui ruoli, già indeboliti dalla presenza umana, non sono ancora del tutto conosciuti. Per fare un esempio, i cuccioli di tartaruga marina emergono dal nido di notte e usano segnali visivi per dirigersi verso l’orizzonte più luminoso e più basso; l’inquinamento luminoso notturno potrebbe alterare i segnali percepiti, disorientandoli. Ma anche gli invertebrati, che costituiscono la maggior parte della biodiversità sulla terra e sono vitali per gli ecosistemi, sono disturbati dalla luce artificiale. Luci UV, verde e blu, che hanno lunghezze d’onda corte e le alte frequenze, sono più visibili dalla maggior parte degli insetti e sono molto attraenti per loro. Anche per questo motivo, inizialmente, i lampioni LED non vennero considerati una buona alternativa ai lampioni tradizionali; emettevano soprattutto in luce blu.

Parallelamente, alcuni studi hanno recentemente dimostrato che la luce diffusa può avere effetti diretti o indiretti sulla salute umana e sull’umore; l’esposizione alla luce artificiale durante la notte inibisce la produzione di melatonina, problema associato all’incidenza di alcuni tumori al seno. In ogni caso, anche bassi livelli di illuminamento nella regione blu dello spettro della luce possono interrompere la secrezione di melatonina con effetti catastrofici sui cicli sonno-veglia. Inoltre, l’illuminazione artificiale può anche provocare abbagliamento notturno, che influisce sulla sicurezza della guida e dei pedoni.

Figura 1. Esempi di illuminazione notturna.

Tuttavia, definire e misurare l’inquinamento luminoso non è ancora così facile. Come identificare l’equilibrio tra illuminazione utile e inquinamento luminoso? E come quantificare oggettivamente l’illuminazione per vedere se questo equilibrio viene raggiunto? Alcuni scienziati hanno sviluppato la cosiddetta metrica della scatola da scarpe che potrebbe rendere più facile quantificare, e quindi regolare, l’inquinamento luminoso. Il soprannome di “scatola da scarpe” si riferisce all’area rettangolare descritta dai piani verticale e orizzontale che circondano un sito. I ricercatori propongono che architetti e progettisti considerino la quantità di luce che lascia la scatola da scarpe lungo ogni piano come un modo per caratterizzare l’impatto luminoso di un sito. Esistono comunque già alcuni strumenti per la misura dell’illuminazione, come lo Sky Quality Meter, utilizzato per monitorare appunto l’inquinamento luminoso in Europa, e in tutto il mondo tramite il progetto di citizen science Globe at night.

Probabilmente quando pensiamo all’inquinamento luminoso ci vengono in mente le illuminazioni stradali delle grandi città. Tuttavia, un esperimento effettuato a Tucson, in Arizona, ha rilevato che solo il 20% della luce visibile da satellite deriva da lampioni, mentre ben l’80% è dovuto a sorgenti private, vetrine di negozi e impianti sportivi. Inoltre una parte è dovuta alla diffusione atmosferica, impossibile da eliminare.

Cosa possiamo fare quindi?

A parte l’ovvio spegnere le luci quando non ci servono, sarebbe utile adottare un’illuminazione LED e lampioni che illuminino in maniera precisa una certa zona, in maniera da non diffondere più luce del necessario e avere un’illuminazione funzionale. In questa direzione vanno anche le soluzioni di telecontrollo e illuminazione adattiva, che permettono una gestione intelligente degli impianti e un risparmio di oltre il 30% rispetto a soluzioni già LED. Magari pensiamo che l’illuminazione adattiva sia disponibile solo per le grandi città, ma in realtà alcune società come Philips e Ikea forniscono lampadine che si collegano al wireless di casa, controllabile tramite assistenti come Siri e Alexa. Ma esistono anche apparecchiature che si adattano automaticamente alla luce ambientale, minimizzando i consumi, come fanno alcune lampade Samsung. Quindi, anche nel nostro piccolo, possiamo fare qualcosa per questo problema, troppo spesso sottovalutato.

Bibliografia:

  • Sustainable Lighting and Light Pollution: A Critical Issue for the Present Generation, a Challenge to the Future, Georges Zissis
  • Switch On the Night: Policies for Smarter Lighting, Luz Claudio.

Autrice: Maila Agostini, socia attiva di Semi di Scienza, operatrice dell’Osservatorio Polifunzionale del Chianti.

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