Risorse – Semi di Scienza https://www.semidiscienza.it Sun, 10 Sep 2023 14:02:12 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.8.10 https://www.semidiscienza.it/wp-content/uploads/2019/01/cropped-Semi-di-scienza-1-32x32.png Risorse – Semi di Scienza https://www.semidiscienza.it 32 32 Scenari per un’Italia “tutta rinnovabile” https://www.semidiscienza.it/2023/09/10/scenari-per-unitalia-tutta-rinnovabile/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=scenari-per-unitalia-tutta-rinnovabile https://www.semidiscienza.it/2023/09/10/scenari-per-unitalia-tutta-rinnovabile/#respond Sun, 10 Sep 2023 14:02:12 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=2494

È possibile immaginare per il nostro Paese una transizione completa verso le fonti di energia rinnovabili? I motivi, sempre più urgenti per una transizione energetica – che significa a tutti gli effetti una transizione ecologica – sono ormai noti a tutti: ma è concretamente fattibile?

Se lo sono chiesti un gruppo di ingegneri e tecnici di ASPO (sezione italiana dell’Association for the Study of Peak Oil) e ricercatori/tecnologi dell’Istituto per i Processi Chimico-Fisici del Consiglio Nazionale delle Ricerche e ne è venuto fuori uno studio – liberamente scaricabile a questo link – che analizza diversi possibili scenari. Lo scopo principale di questa analisi è valutare la generale fattibilità di un sistema energetico italiano completamente basato su fonti energetiche rinnovabili. In particolare, si sono volute quantificare le dimensioni necessarie per l’apporto di fotovoltaico ed eolico, e le problematiche legate alla intermittenza di queste fonti, sia su scala circadiana che annuale. Si è confrontato quindi un ipotetico profilo di produzione, basato sui dati reali di produttività degli impianti esistenti per ciascuna delle 8760 ore che compongono un anno, con il profilo di consumo derivato, con alcune assunzioni, da quello reale del 2019. Il confronto è basato su un modello e su assunzioni differenti in relazione alle possibili strategie per affrontare il problema.

Una delle precisazioni a cui gli autori tengono è che lo studio non è da considerarsi un piano energetico o il progetto di un sistema energetico reale, ma solamente uno strumento per fornire indicazioni quantitative sulle dimensioni attese e sui problemi che questo sistema dovrà affrontare. La prima assunzione fatta riguarda la completa elettrificazione dei consumi, utilizzando le tecnologie più efficienti oggi disponibili. In questo modo è possibile ottenere la stessa energia finale (calore, movimento, servizi) utilizzando annualmente 700 TWh (miliardi di kWh) di energia elettrica anziché i 1.800 TWh di energia primaria (quella contenuta soprattutto in combustibili fossili) che utilizziamo oggi.

Una delle prime evidenze che risultano dall’analisi è che non è realisticamente possibile realizzare sistemi di accumulo, soprattutto stagionale, in grado di coprire questi consumi in modo continuativo. Non solo: uno dei principali “insegnamenti” di questa analisi è che sarà necessario ridurre i consumi in modo importante, attraverso misure di sobrietà, efficienza e risparmio. Infatti, l’unica simulazione in cui è stata verificata una copertura totale dei consumi prevede un fabbisogno annuo di 350 TWh, cioè, cioè la metà del fabbisogno attuale. Il solo incremento dell’efficienza energetica non basta, occorre dimezzare la domanda finale di energia.

Per coprire questi fabbisogni servirà una massiccia installazione di impianti fotovoltaici ed eolici, come dettagliato nel report. L’intermittenza giorno-notte, soprattutto del fotovoltaico, può essere coperta disponendo di sistemi di accumulo per circa 4 kWh ad abitante. Per quanto si possano utilizzare gli attuali sistemi idroelettrici a doppio bacino, la maggior parte dell’accumulo deve essere realizzata con batterie. Questo richiede, con la tecnologia attuale (batterie agli ioni di litio), circa 650 grammi di litio ad italiano che, distribuiti sulla durata attesa delle batterie, è molte volte superiore all’attuale produzione mondiale per abitante della Terra.

Occorrerà quindi prevedere un aumento della produzione, e un efficiente riciclo delle batterie a fine vita. Il problema potrà essere in buona parte risolto dall’avvento delle batterie a ioni di sodio, attualmente in fase avanzata di studio e sperimentazione. Anche con un efficiente sistema di accumulo giorno-notte, le variazioni stagionali comportano un esubero di produzione estivo e un ammanco invernale. Periodi estivi con assenza di vento provocano ammanchi notturni anche nei mesi estivi. È quindi necessario un sistema di accumulo stagionale. L’accumulo idroelettrico non è assolutamente adatto, e comunque è più efficacemente utilizzato per l’accumulo nel breve periodo. Lo studio ipotizza quindi, a questo scopo, l’utilizzo di gas metano di sintesi, accumulato negli attuali stoccaggi per il gas naturale e utilizzato per produrre energia elettrica nelle attuali centrali turbogas. Il metano verrebbe prodotto dall’esubero estivo di energia (processo Sabatier) a partire da idrogeno “verde” e anidride carbonica catturata dai camini delle centrali. Il processo è differente da quello attualmente suggerito (stoccaggio diretto dell’idrogeno), ma le rese finali, includendo tutte le perdite, e le capacità di accumulo sono confrontabili. Anche utilizzando tutti i depositi geologici disponibili sul nostro territorio, nella situazione in cui si mantenga il fabbisogno di energia finale attuale si verificherebbero ammanchi di energia per il 20% del tempo totale, concentrati in particolare nelle ore notturne dei mesi invernali. Come indicato sopra, sono pertanto necessarie misure importanti di riduzione dei consumi energetici.

In conclusione, se un sistema basato su rinnovabili è fattibile, per garantire la copertura dei fabbisogni in ognuna delle 8760 ore che compongono un anno serve uno sforzo notevole su molti fronti, ma la posta in gioco è il nostro futuro.

Autore: Luciano Celi, Presidente di ASPO Italia

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Desertificazione, siccità e cambiamento climatico: dobbiamo iniziare a pensare come la formica di Esopo https://www.semidiscienza.it/2022/07/01/desertificazione-siccita-e-cambiamento-climatico-dobbiamo-iniziare-a-pensare-come-la-formica-di-esopo/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=desertificazione-siccita-e-cambiamento-climatico-dobbiamo-iniziare-a-pensare-come-la-formica-di-esopo https://www.semidiscienza.it/2022/07/01/desertificazione-siccita-e-cambiamento-climatico-dobbiamo-iniziare-a-pensare-come-la-formica-di-esopo/#respond Fri, 01 Jul 2022 16:59:26 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=1689

Di Camilla De Luca e Yuri Galletti

Il 17 Giugno è il giorno dedicato dalle Nazioni Unite (ONU) alla lotta alla desertificazione e alla siccità.

Ma cosa indica la parola desertificazione? Rappresenta il fenomeno relativo all’espansione dei deserti esistenti?

No, se facciamo riferimento alla definizione data dall’ONU: “La desertificazione è la degradazione della terra che viene trasformata in aree aride, semi-aride e sub-umide. Essa è causata principalmente dalle attività umane e dalle variazioni climatiche”. Si tratta quindi da un lato di una conseguenza dell’uso improprio della terra, attraverso per esempio la deforestazione, il sovrasfruttamento della risorsa suolo e le cattive pratiche di irrigazione, le quali riducono la produttività del terreno. Dall’altro lato, la desertificazione, così come la siccità, sono una conseguenza del cambiamento climatico. Secondo una ricerca pubblicata su Nature, infatti: “il cambiamento climatico antropogenico ha degradato il 12,6% (5,43 milioni di km2) delle zone aride, contribuendo alla desertificazione e colpendo 213 milioni di persone, il 93% delle quali vive in economie in via di sviluppo”.

Il Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres si è espresso in occasione della giornata insistendo sul fatto che entro metà secolo tre quarti della popolazione potrebbe dover convivere con la siccità e che attualmente metà della popolazione globale sta già facendo fronte alle problematiche derivanti dalla degradazione del suolo. La situazione non è infatti migliorata negli ultimi tempi: al contrario secondo i dati pubblicati dalla UNCCD (Convenzione delle Nazioni Unite per Combattere la Desertificazione) “dal 2000 il numero e la durata degli eventi siccitosi è aumentato del 29% a livello mondiale”. Le conseguenze umane sono già evidenti: 2.3 miliardi di persone fanno già fronte a emergenze legate all’accesso all’acqua. L’ONU sottolinea che sempre più persone dovranno far fronte alla scarsità di acqua, UNICEF ( United Nation Children’s Fund) stima che 1 bambino su 4 entro il 2040 non avrà accesso diretto alla risorsa acqua. “Nessun paese è immune alla siccità”  è ciò che è stato detto da UN-Water nel 2021.

Se queste informazioni non sono bastate a farci percepire come parte del problema e come popolazioni a rischio, ecco una serie di dati attuali sull’Italia che forse ci faranno cambiare idea.

Proprio in questi giorni si parla di emergenza siccità in tutto il Nord Italia, dal Veneto alla Lombardia alla Valle D’Aosta al Piemonte, la regione della valle del Po, ovvero la più colpita, ma in realtà è un problema comune in quasi tutta la penisola. Il portale Rinnovabili.it sottolinea come nei primi cinque mesi del 2022 le piogge si siano ridotte del 44% e come l’osservatorio ANBI (Associazione Nazionale dei Consorzi per la Gestione e la Tutela del Territorio e delle Acque Irrigue) abbia denunciato l’importante diminuzione dei flussi dei fiumi Arno, Ombrone, Sentino, Nera ed Esino. In Lazio si è cominciato quindi a parlare di razionamento dell’acqua potabile, mentre nel comune lombardo di Tradate un’ordinanza comunale prevede sanzioni per chi utilizza l’acqua potabile per scopi diversi dall’uso essenziale come riempire piscine e lavare l’auto. Il caso della Puglia aggiunge il calo della produzione agricola e il rischio di incendi alla casistica di conseguenze possibili dovute alla siccità. La Gazzetta del Mezzogiorno, citando sempre i dati di ANBI, descrive come per via dell’anticiclone africano e della ridotta capacità idrica della regione (ad aprile sono caduti 160 millimetri in meno di pioggia rispetto ai valori del 2020) il rischio siccità sia molto elevato. Ciò, secondo Coldiretti Puglia, metterebbe a rischio il 30% di produzione agricola, la produzione di colture destinate agli animali e l’irrigazione di oliveti e frutteti. Coldiretti sottolinea poi come le alte temperature, l’assenza di precipitazioni e l’abbandono dei campi di ulivi per via del patogeno batterico Xylella siano un fattore determinante per l’inaridimento del suolo e delle piante e quindi un fattore che aumenta considerevolmente il rischio di incendi. 

Luca Mercalli, noto meteorologo, su Il Fatto Quotidiano sottolinea come secondo le previsioni meteorologiche a scala stagionale queste temperature sopra la media e la scarsità di precipitazioni saranno costanti per tutta l’estate. Ciò metterà a rischio le nostre riserve d’acqua già ad oggi limitate. Per questo motivo il climatologo denuncia la necessità di ascoltare la scienza. Infatti climatologi e idrologi avevano previsto questi fenomeni da almeno un trentennio. Inoltre, sempre il noto divulgatore suggerisce di preparare delle strategie di gestione multifunzionale a livello nazionale delle risorse idriche che prevedano la riparazione degli acquedotti e la costruzione di invasi di raccolta di acque meteoriche, abbondanti in certe stagioni, per utilizzarle durante i periodi di siccità.

Di fronte a questi dati non bisogna però scoraggiarsi. Al contrario, vi invitiamo a rileggere il primo paragrafo di questo articolo: “la desertificazione è causata prevalentemente dalle attività umane e dal cambiamento climatico”. Dunque, citando il Segretario Generale delle Nazioni Unite:  “dobbiamo e possiamo invertire questa spirale discendente”.

Secondo l’ONU la giornata del 17 giugno è un momento unico per ricordare che eliminare il danno causato dalla nostra società alla terra è possibile, attraverso un approccio “di problem-solving, un forte coinvolgimento della comunità e una cooperazione a tutti i livelli”. Prenderci cura della terra, della sua produttività, della biodiversità e per esempio favorire l’accesso alla proprietà terriera alle donne può inoltre permettere di far fronte alla crisi climatica e può contribuire al raggiungimento degli obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) dell’Agenda 2030, poiché ciò rappresenta anche un grande fattore di sviluppo per le comunità agricole e per le donne di tali comunità.

Qual è il messaggio principale che possiamo ricavare da questo articolo? Citando una famosa fiaba di Esopo, dovremo cominciare a pensare come la formica e smettere di pensare come la cicala. Dovremmo pensare al futuro e cominciare fin da subito a utilizzare in modo intelligente le risorse scarse che abbiamo a disposizione.

Fonti:

https://www.nature.com/articles/s41467-020-17710-7

https://www.un.org/press/en/2022/sgsm21325.doc.htm

https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/home/1344333/siccita-in-puglia-57mln-metri-cubi-di-acqua-negli-invasi-ad-aprile-160mm-di-pioggia.html

https://www.un.org/en/observances/desertification-day

https://laprovinciapavese.gelocal.it/pavia/cronaca/2022/06/16/news/cia-e-confagricoltura-subito-lo-stato-d-emergenza-per-la-siccita-e-serve-un-commissario-straordinario-1.41515194

https://milano.corriere.it/notizie/lombardia/22_giugno_16/siccita-lombardia-regione-chiede-stato-emergenza-tradate-multe-chi-innaffia-giardini-lava-l-auto-8e767f54-ed69-11ec-96f8-928391ee2cf6.shtml

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/06/16/la-fisica-non-mente-ci-restano-10-anni/6628604/

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La sensazione di essere in trappola https://www.semidiscienza.it/2021/11/04/la-sensazione-di-essere-in-trappola/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=la-sensazione-di-essere-in-trappola https://www.semidiscienza.it/2021/11/04/la-sensazione-di-essere-in-trappola/#respond Thu, 04 Nov 2021 10:36:13 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=1481 Chi mi conosce mi sa ottimista. Ho avuto una vita per certi aspetti complicata e “disperante” in certi frangenti del passato, in occasione di cose che mi sono accadute, ma per le quali non è il caso di annoiare il lettore che arriverà a leggere queste righe. Non ho la vita che avrei voluto o che ancora vorrei, per “addrizzare il tiro” quel minimo necessario a uscire di scena dignitosamente, ma, se mi guardo intorno un po’ attentamente, mi viene da chiedermi: chi ha la vita che vorrebbe? Non mi pare siano molti – e non parlo della vita che facciamo vedere agli altri, ma di quella che per noi stessi avevamo immaginato, forse sognato.

Da diversi anni mi occupo tra lo “scientifico” e il “divulgativo” di energia e, più in generale, di risorse. Ho letto abbastanza, ma, come sempre, moltissimo resta da studiare e leggere e la sensazione, qui come altrove, è quella che una vita non basti a essere minimamente competenti. Diciamo che almeno mi sono fatto le basi. Occuparmi di questi argomenti ha avuto il preciso significato di popolare la mia piccola attività editoriale di libri che di questi argomenti parlino, con un approccio il più possibile scientifico-divulgativo (si cerca di trattare questi argomenti semplificando certi concetti, ma restando aderenti al rigore scientifico con cui devono essere trattati), ma soprattutto sempre con un occhio a quella che è la natura umana.

Già, la natura umana. Proprio quella che ci ha condotto fino qui, sul baratro del collasso ecosistemico globale. Ieri mattina in una mail raccontavo a un amico della mia partecipazione (come piccolissimo editore) al Pisa Book Festival. Ci sarebbe stato da mettere una webcam dietro il mio banchetto/stand che, pur presentandosi bene e molto colorato, in certi casi, quando la gente si avvicinava per leggere i titoli, prima sbarrava un po’ gli occhi come se avesse visto uno scarafaggio sulle copertine e poi, cercando di dissimulare, girava i tacchi verso approdi più tranquilli – magari letterari e magari di evasione. Comprensibile. Già siamo presi dai mille problemi del quotidiano, mica possiamo pensare di metterci a leggere cose impegnative che parlano di energia e risorse e del nostro modo, più o meno “volontario”, di stare su questo pianeta, anche se questo ci riguarda molto molto da vicino! Eppure sento che ha senso (cercare di) informare le persone su questi temi, che arrivano alle luci della ribalta mediatica solo quando la bolletta del gas o della luce rincara. O la benzina alla pompa ha cominciato una ascesa apparentemente inarrestabile, della quale però il mondo che ho intorno sembra continuare a non accorgersi.

Già, la natura umana. Come scrivevo tempo addietro, l’aspetto più lungimirante di quella pietra miliare che ho avuto l’onore di ripubblicare con Lu::Ce edizioni – I limiti alla crescita “ex” I limiti dello sviluppo – è costituto dal primo grafico. In un volume densissimo di grafici e proiezioni il primo, guarda caso, non riguarda nessun dato scientifico, ma ha a che fare proprio con la natura umana e credo non abbia bisogno di commenti. È come se gli autori, consapevoli di quello che stavano scrivendo, dicessero anche: “Attenzione! Possiamo fare tutte le proiezioni e gli scenari che vogliamo, ma di una cosa “ingovernabile” dobbiamo senz’altro tenere conto: la natura umana, che è fatta così – pensieri che nello spazio arrivano al quartiere, quando va bene, e nel tempo, alla prossima settimana…”. Il grafico è questo qui di seguito e credo non abbia bisogno di spiegazioni:

Sui motivi per cui la natura umana si sia storicamente configurata in questo modo, fior di psicologi cognitivisti, evoluzionisti, ecc. hanno tentato delle spiegazioni. Molte delle quali, sufficientemente semplici e convincenti, rimandano a un concetto che sta alla base della questione: il nostro cervello è “cablato” in modo da percepire pericoli immediati e vicini non lontani nello spazio e nel tempo, perché da pericoli immediati e vicini l’uomo si doveva difendere quando era nella savana o nel bush. Tutto il resto poteva aspettare. Questo “cablaggio” – e uso questo termine perché la questione sembra avere a che fare molto più con “l’hardware” del nostro cervello che con il “software” dei nostri pensieri – proprio perché tale, non si smantella nell’arco di un paio di generazioni e questo potrebbe essere in sostanza all’origine della nostra rovina futura. Si tratta di una incapacità strutturale, che dobbiamo fronteggiare e alla quale dobbiamo cercare di sopperire se vogliamo avere qualche chance di restare su questo pianeta in modo decente.

Un articolo che, in tempi recenti, mi ha dato molto da pensare sull’imminenza delle cose che accadono e che più o meno consciamente tendiamo a “rimandare” nel nostro cervello, è questo, sul blog di «Le Monde» che lo stesso autore – che si autodefinisce “Mr. Oil Man” – tiene su quella testata. Un articolo un po’ tecnico, ma sufficientemente comprensibile a chi mastichi un po’ di francese. Gli scenari che Matthieu Auzanneau delinea sono abbastanza inquietanti e non è che le cose vadano meglio a casa nostra, dove il PNRR (Piano Nazionale di ripresa e resilienza), grazie all’avvento del Ministero della transizione ecologica, capeggiato dal cigolante Cingolani, rischia di trasformarsi nel “piatto ricco” (piatto ricco / mi ci ficco – recitava un vecchio adagio dei giocatori di poker, e qui l’azzardo è ben più che una giocata al tavolo verde, visto che si tratta del futuro di tutti noi) delle multinazionali – anzi DELLA multinazionale – “Oil & Gas” nostrana, ENI (accompagnata dalla “sorella” Snam).

Già, la natura delle multinazionali. Se la natura umana è quella che abbiamo brevemente delineato – e per conoscerla, volendo tirare fuori un vecchio classico della filosofia, basta guardare dentro se stessi – sulla natura delle multinazionali si fa presto a delinearne la natura (e lo posso, in questo caso, fare anche con cognizione di causa, visto che ci sono stato dentro per un paio d’anni): sono strutture fatte per fare soldi. Per fare soldi il più possibile, con tutti i mezzi possibili (anche al limite e oltre la legalità, come racconta il libro di Marco Grasso e Stefano Vergine, Tutte le colpe dei petrolieri), tutto il resto può aspettare e comunque è accessorio e di facciata. Ma anche questo non lo sappiamo? Certo che lo sappiamo. Nessuno di noi è tanto ingenuo da pensare che siano lì per fare beneficienza. E quindi cosa possiamo aspettarci da loro? Che nel piatto ricco dei soldi stanziati per cercare di darci (dare a tutti noi) la remota possibilità di un futuro migliore – soprattutto per chi dopo di noi verrà – ci si buttino a rotta di collo e in tutti i modi possibili, al punto che, come racconta questa infografica qui sotto, tratta da questa pubblicazione scaricabile gratuitamente che invito tutti a leggere (sono poche pagine), le attività di lobbying del colosso energetico italiano ha prodotto qualcosa come 102 incontri tra il Ministero della transizione ecologica di cui sopra e i funzionari di ENI/Snam nei mesi che vanno dal 20 luglio 2020 al giugno 2021.

Da tutto questo la sensazione di essere in trappola. Una trappola che sta per scattare nel presente, ma soprattutto che non si tenta di disinnescare per il futuro.

Autore: Luciano Celi – membro del direttivo

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Acqua, cibo , risorse energetiche e il “Water-Food-Energy Nexus” https://www.semidiscienza.it/2021/04/13/acqua-cibo-risorse-energetiche-e-il-water-food-energy-nexus/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=acqua-cibo-risorse-energetiche-e-il-water-food-energy-nexus https://www.semidiscienza.it/2021/04/13/acqua-cibo-risorse-energetiche-e-il-water-food-energy-nexus/#respond Tue, 13 Apr 2021 12:40:22 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=1333 È ormai risaputo:  acqua, cibo e risorse energetiche sono a rischio scarsità. Alcuni dati illustrano la situazione: entro il 2050 la produzione di cibo dovrà aumentare del 60% per rispondere alla domanda di una popolazione globale in crescita esponenziale; dal 2050 la domanda globale di acqua aumenterà del 55% e la metà della popolazione mondiale vivrà in aree sottoposte a difficoltà di approvvigionamento di acqua; nei prossimi 10 anni la produzione globale di energia aumenterà del 60%. La degradazione dell’ambiente e del suolo e il cambiamento climatico, inoltre, peggiorano il problema riducendo la quantità di suolo coltivabile.

Mettiamo insieme i vari tasselli e il quadro appare chiaro: soddisfare i bisogni sempre più sofisticati di una popolazione in crescita, tenendo in considerazione il rispetto dei limiti planetari, è un problema che dovremo affrontare il prima possibile.

Ma non finisce qui. Oltre al rischio di scarsità, i tre settori sono strettamente collegati l’un l’altro. Basta dire che l’elettricità conta per un 5-30% (stima) dei costi operativi di estrazione, trattamento e distribuzione dell’acqua. I prelievi di acqua dolce per la produzione di energia contano per circa il 15% del consumo mondiale di acqua, percentuale che è attesa aumentare al 20% entro il 2035. Il 70% del consumo globale di acqua è legato al settore agricolo e il 30% del consumo globale di energia è legato alla produzione di cibo.

Quindi, è chiaro che le scelte di produzione e l’efficienza di ogni settore hanno un impatto immediato sugli altri. È dalla comprensione di questi collegamenti che si è cominciato a parlare di “Water-Food-Energy Nexus“. Si tratta di un approccio alla gestione di tali risorse, che si basa sull’interdipendenza dei relativi settori e sulla necessità di garantire un accesso alle stesse che sia sostenibile ed equo, ovvero che rispetti i diritti fondamentali al cibo e all’acqua, tutelati dalla Dichiarazione Universale dei diritti Umani, in maniera coerente con gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 (obiettivi 2, 6, 7).

Un approccio che dovrebbe essere tenuto in considerazione soprattutto in questo momento di cambiamento socio-economico e che dovrebbe essere tenuto in considerazione a livello europeo e a livello nazionale nei Recovery Plan attualmente in elaborazione.

Link e riferimenti per dati esposti:

https://www.water-energy-food.org/mission

https://rienergia.staffettaonline.com/articolo/34362/Il+nesso+acqua-energia:+fondamentale+per+il+clima/Alloisio

https://www.waterandfoodsecurity.org/scheda.php?id=52#:~:text=Il%20diritto%20al%20cibo%20pu%C3%B2,particolare%20donne%20e%20popolazioni%20indigene

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/03/22/acqua-cibo-ed-energia-su-questo-legame-si-basera-la-storia-dellumanita-di-questo-secolo/6140876/

Autrice: Camilla De Luca – Semi di Scienza e Cambiamo

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Anatomia della balena (e delle risorse energetiche) https://www.semidiscienza.it/2020/03/03/anatomia-della-balena-e-delle-risorse-energetiche/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=anatomia-della-balena-e-delle-risorse-energetiche https://www.semidiscienza.it/2020/03/03/anatomia-della-balena-e-delle-risorse-energetiche/#respond Tue, 03 Mar 2020 13:58:09 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=876 1. Lo zeitgeist

Leggere – o rileggere, a seconda dei casi – il più celebre romanzo del “Rinascimento americano”, Moby Dick, o La balena di Herman Melville può essere arduo: il linguaggio è “barocco” agli occhi di noi moderni; le digressioni, per noi, “uomini sempre senza tempo”, possono essere sfinenti e poi… la Balena – vagheggiata, cacciata, immaginata, sognata come in incubo da Achab – arriva in ultimo e fa quello che deve, disintegrando il Pequod e uccidendo tutti, tranne la voce narrante che ci accompagna per tutto il romanzo, quella di Ismaele – possiamo tranquillamente fare spoiler, sono passati 169 anni.

Il romanzo, denso di riferimenti biblici – rilevati puntualmente nella sempreverde traduzione autorevole di Cesare Pavese, ripubblicata nella recente edizione Adelphi – è, in questo senso (nel senso della cruenza della vita di mare, delle battaglie che questi uomini conducevano con il “leviatano”, il mostro marino[1]) veterotestamentario: non c’è spazio per la pietà e le cose accadono (o non accadono) come se la volontà divina fosse sempre lì ben presente e netta a dirimere le questioni senza incertezze. Ma chi si aspetti un romanzo d’avventura o picaresco ha sbagliato libro: qui, si diceva, le digressioni non si contano e il romanzo stesso – nel solco di una tradizione ben nota che passa attraverso Le mille e una notte e il Decameron –rinvia fino alle ultime pagine l’esito di quel che accadrà.

Delle digressioni, quelle che ci sembrano scritte oggi e contribuiscono a fare di Moby Dick un classico, una riguarda il cibo e il rapporto cruento che, allora come ora, gli esseri umani hanno con le bestie che mangiano:

[…] non è forse soltanto a causa dell’estrema untuosità della balena che la gente di terra sembra considerare con ripugnanza il cibarsene. Sembra che in qualche modo ciò risulti dalla considerazione surriferita: che un uomo, cioè, mangi di una creatura marina appena uccisa, e per di più ne mangi alla sua stessa luce. Ma senza dubbio, il primo uomo che uccise un bue venne considerato assassino; magari venne impiccato; e se fosse stato processato da buoi, impiccato lo sarebbe stato di certo; e certo se lo sarebbe meritato, se un assassino si merita questo. Andate al mercato della carne la notte d’un sabato e guardate i mucchi di bipedi vivi che stanno a contemplare le lunghe file di quadrupedi morti. Non fa cadere i denti della mascella di un cannibale quello spettacolo? Cannibali? E chi non è cannibale? Vi dico che la passerà più liscia il figiano che abbia messo in sale nella sua cantina un magro missionario per far fronte a una carestia imminente; la passerà più liscia quel previdente figiano, vi dico, nel giorno del Giudizio, che non toccherà a te, incivilito e illuminato ghiottone, che inchiodi a terra le oche e banchetti di pâté de foie gras coi loro fegati gonfi.

Ma Stubb, Stubb mangia la balena alla luce del suo olio, no? e ciò si chiama aggiungere al danno le beffe, vero? Da’ un occhio al manico del tuo coltello, o incivilito e illuminato ghiottone che stai pranzando con bue arrosto; di che cos’è fatto quel manico? di che cosa, se non delle ossa del fratello del bue che stai mangiando? e con che cosa ti stuzzichi i denti, dopo che hai divorato quell’oca grassa? Con una piuma dello stesso volatile. E con che penna scrisse le sue circolari il segretario della Società per la Soppressione delle Crudeltà usate alle Oche? È appena un mese, al massimo due, che quella Società ha votato una decisione di non tollerare altre penne che d’acciaio.[2]

Un duro giudizio morale che si potrebbe applicare ancora oggi. E una visione – alimentata proprio dal “libro dei libri”, la Bibbia – secondo cui, almeno riferendoci a una interpretazione (diffusa) di alcuni passi, l’uomo è al vertice di una presunta piramide del creato: Dio, si legge in Genesi 2:18-24, vide l’uomo solo, e come prima compagnia gli creò gli animali. Ma l’uomo non vi si riconobbe. Anzi imponendo loro i nomi, secondo le categorie antiche, lì si vuol dire che l’uomo è diverso, superiore e “quasi” creatore del senso che gli animali debbono avere nell’habitat umano. Ecco il nocciolo della questione: l’animale è creato per esser d’aiuto all’uomo, per il suo vivere mondano, ma è un livello diverso, inferiore, subalterno. Tant’è che dopo il test dell’imposizione dei nomi, Dio riconosce che l’uomo è ancora solo e l’uomo stesso «non trovò [in essi] un aiuto che gli fosse simile» (Ibid., v. 20). Dobbiamo aspettare l’arrivo di Francesco d’Assisi per capovolgere la prospettiva e tornare ad essere creature (senzienti e quindi, almeno in teoria, responsabili) tra le creature.

Ma, che fossero “tempi duri”, era indubbio: la natura, prima di essere completamente soggiogata – attraverso scienza e tecnica – ai voleri dell’umanità, era matrigna e se da un lato dava, dall’altro pre(te)ndeva, talvolta anche molto. Se ci si pensa stiamo parlando di meno di due secoli fa eppure, per come è evoluta la storia nel seguito, sembrano passati millenni. Che fossero tempi duri ce lo dice un’altra storia che non ha nulla a che vedere con il romanzo, ma accadde un paio d’anni prima che il romanzo venisse pubblicato, ed è un’altra storia americana, quella della spedizione Donner[3].

La natura, matrigna, era però vista come fonte inesauribile di risorse. L’idea di “servizio ecosistemico” era di là da venire e forse ancora alcune delle moderne teorie economiche si basano sulla convinzione che le risorse (minerali, energetiche, di cibo – animale e vegetale) siano lì, inesauribili. Ancora una volta vale la pena citare il testo di Melville:

[…] siccome forse cinquanta di queste balene da osso vengono ramponate per un solo cachalot, qualche filosofo del castello di prora ne ha concluso che questo positivo massacro ha già decimato molto seriamente i battaglioni di quelle balene. Ma benché da qualche tempo a questa parte un bel numero, non meno di 13.000, ne siano state uccise annualmente soltanto dagli Americani sulla costa del Nord-ovest, pure ci sono considerazioni che rendono anche questa circostanza di poco o nessun conto come argomento d’opposizione nella faccenda.

Naturale com’è una certa incredulità riguardo all’abbondanza delle creature più enormi del globo, pure che cosa diremo ad Harto, lo storico di Goa, quando ci racconta che in una caccia il re di Siam prese 4.000 elefanti, e che in quelle regioni gli elefanti sono numerosi come le mandrie di bestiame nelle regioni temperate? E sembra che non ci sia ragione di dubitare che, se questi elefanti ormai cacciati per migliaia di anni da Semiramide, da Poro, ad Annibale e da tutti i monarchi successivi dell’Oriente, se questi sopravvivono là in grande numero, molto più potrà la grande balena sopravvivere a ogni caccia, dacché essa ha un pascolo per spaziare che è grande precisamente due volte l’intera Asia, le Americhe, l’Europa, l’Africa, la Nuova Olanda, e tutte le isole del mare messe insieme.[4]


[1] La locuzione «mostro marino» non è casuale: in un’epoca (ancora) timorata di Dio come quella, rifacendosi alla Bibbia troviamo almeno due citazioni in cui l’equivalenza è data: «e Dio creò le grandi balene (mostri marini)» (Genesi 1:21); «Son io forse il mare o una balena (mostro marino), perché tu mi metta accanto una guardia?» (Giobbe 7:12). In generale le balene – e il capodoglio in particolare – sono associate, anche nel romanzo di Melville, al Leviatano.

[2] Herman Melville, Moby Dick, o La balena, Adelphi, Milano, pp. 329-330.

[3] Non mi dilungo su questo episodio terribile, ma chi volesse approfondire può trovare una esaustiva voce su Wikipedia, all’indirizzo: https://it.wikipedia.org/wiki/Spedizione_Donner

[4] Melville, op. cit., p. 484.

2. Le balene salvate dal petrolio

Le balene – mostri marini e nemiche – quindi da cacciare e da cui estrarre il prezioso olio. D’altra parte la forza su cui si poteva contare, ai tempi di Moby Dick, era muscolare. Per le baleniere come il Pequod le si poteva aggiungere quella del vento, ma era davvero un lavoro fatto a mano e quindi improbo.

Il film Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick (2015, regia di Ron Howard), ha inizio nel 1850, anno in cui Herman Melville, in cerca di ispirazione per il suo nuovo romanzo, si reca a far visita all’anziano Thomas Nickerson, sull’isola di Nantucket (Massachusetts), con la speranza di riuscire a farsi raccontare del tragico naufragio della baleniera Essex, su cui Nickerson era in servizio come mozzo. Il vecchio marinaio in un primo momento si mostra riluttante, ma alla fine, spronato anche dalla moglie, decide di raccontare al suo ospite la vera storia del naufragio. La storia si dipana, tragica e imponente, e finisce con uno scambio di battute tra lo scrittore e Nickerson.

Poco prima di congedarsi, il vecchio marinaio della Essex constata che, probabilmente, il mondo della caccia alle balene del quale ha appena finito di narrare una dolorosa storia, presto cesserà di esistere perché, per quanto possa apparire incredibile, è appena giunta la notizia che in un’altra regione degli Stati Uniti, scavando con un particolare congegno meccanico, sia uscito (petr)olio dal terreno.

Lo scrittore risponde con una sorta di alzata di spalle e una specie di «chissà dove andremo a finire», e il film finisce.

Questo ci ricorda il motivo per cui la caccia alle balene fu un’attività così fiorente negli Stati Uniti tra il 1800 e il 1860: l’olio estratto dai cetacei serviva, come evidenziato più volte nel film, a rischiarare le buie notti di quell’America convinta che l’Uomo fosse il centro dell’universo per volontà divina e le povere balene dei mostri marini – come già accennato – con i quali Dio testava la sua forza. La scoperta del petrolio cambiò radicalmente la vita dell’umanità sul pianeta, ma in prima battuta scongiurò, almeno inizialmente, l’estinzione delle balene (Fig. 1).


Figura 1 – Andamento della produzione petrolifera e della cacciagione delle balene, fonte: https://ugobardi.blogspot.com/2014/11/la-piu-grande-storia-del-picco-mai.html

Questo ci introduce alla questione della rinnovabilità delle risorse naturali. In figura 2 sono riportati in scala logaritmica i tempi necessari per la rigenerazione delle risorse terrestri. Essendo la scala logaritmica, ogni intervallo corrisponde ad un fattore 10. Questo significa che ogni intervallo sulle ascisse nella figura corrisponde ad un numero di anni 10 volte più lungo di quello dell’intervallo precedente, ma ha, sul grafico, la stessa spaziatura.


Figura 2 – Tempi di rigenerazione delle risorse terrestri, riadattato da P. Bihouix , B. de Guillebon B., Quel futur pour les métaux?, EDP Sciences, 2010. Fonte: Luca Pardi, Il paese degli elefanti. Miti e realtà sulle riserve di idrocarburi in Italia, Lu::Ce edizioni, Massa, 2014.

Per il resto la lettura del grafico risulta abbastanza semplice: i rettangoli al suo interno rappresentano le diverse risorse e la loro lunghezza la loro esauribilità; sul margine destro è indicata la tipologia. Ogni accumulo è soggetto a variazioni quantitative a seconda del grado di sfruttamento a cui è sottoposto. I diversi stock sono per la maggior parte non rinnovabili da un punto di vista umano, cioè si ricostituiscono in tempi che superano di due o più ordini di grandezza la durata della vita umana rappresentata nella figura, come evidenziato dalla linea verticale tratteggiata.

Gli stock di acqua, ad esempio, hanno tempi di rigenerazione che vanno dai giorni (per l’acqua di ruscellamento), agli anni (per le falde freatiche), alle migliaia di anni (per le falde fossili). Agricoltura e allevamento hanno tempi di ricostituzione dipendenti dal tipo di attività.

La maggior parte dell’energia che la società utilizza riguarda i combustibili fossili i cui tempi di rigenerazione vanno dalle decine di milioni di anni, per gas e petrolio, alle centinaia di milioni anni per i diversi tipi di carbone. Le risorse minerarie hanno tempi di ricostituzione che, espressi in anni, variano entro nove ordini di grandezza, oscillando da alcuni anni, come per il sale da cucina, ai miliardi di anni per i minerali, la cui concentrazione dipende dai fenomeni tettonici. E, per i minerali, almeno in un caso acclarato – quello dell’escavazione marmifera, soprattutto nella zona di Massa-Carrara – siamo ormai al quasi completo esaurimento.

È in questo quadro che si deve iniziare a considerare lo sfruttamento delle risorse terrestri. Di norma le persone riescono a cogliere immediatamente il significato delle scansioni temporali indicate lungo l’asse delle ordinate nel grafico riprodotto nella figura 2, corrispondenti a circa 100 anni, ovvero a un arco temporale che ingloba le esperienze che ogni individuo ha del tempo: dalla vita quotidiana alla sua “dilatazione” in una dimensione storica. Il senso dei tempi biologici (qui indicati nel grafico lungo l’asse delle ascisse) e geologici (comparati con la dimensione storica dell’uomo) invece sfuggono totalmente alla comprensione della stragrande maggioranza degli individui.

Questa, ma non solo questa, la “causa psicologica” della scarsa percezione dei problemi di esaurimento delle risorse. Con Bardi:

C’è una ragione per cui questi eventi epocali non lasciano traccia nella percezione della gran parte delle persone. È perché tendiamo a vedere il mondo in termini romanzeschi, non in termini di fatti e dati. Percepiamo solo le cose che generano una reazione emotiva su di noi e per generare questa reazione ci deve essere una storia, un racconto. Potremmo dire che tutta la narrativa è una ricerca di qualcosa, ha a che fare col riuscire contro le difficoltà, ha a che fare con le trasformazioni che avvengono a causa di eventi drammatici. È questa trasformazione che fa risuonare la nostra mente con gli eventi descritti. Reagiamo agli eventi perché percepiamo una storia, non perché leggiamo i numeri scritti su una tabella. Pensate all’altro grande problema dei nostri tempi, il cambiamento climatico: ha un potenziale narrativo tremendo, non è solo che porterebbe con sé eventi drammatici, ma perché sentiamo qualcosa per il nostro pianeta. Percepiamo il fatto che rischiamo di distruggere l’ecosistema terrestre e sentiamo qualcosa per questo: è il racconto di un evento drammatico. È per questa ragione che oggi si discute tanto di “fantaclimatica” (cli-fi, in inglese).[5]

Ma col petrolio tutto è cambiato. Se c’è un segno inequivocabile dello “stato di salute” di una specie, questo è l’incremento della sua popolazione. Il grafico in figura 3 mostra due curve: una rappresenta la disponibilità di energia complessiva e l’altra l’incremento di popolazione proprio a partire dal 1800. Credo che si possa tranquillamente affermare che la prima (la disponibilità energetica) sia causa della seconda (l’incremento della popolazione).


Figura 3: La linea blu del grafico rappresenta il consumo energetico mondiale in esajoule [EJ] e la linea rossa tratteggiata l’incremento della popolazione. Fonte: dati pubblici elaborati dall’autore.

[5] Ugo Bardi, La più grande storia del picco mai scritta, sul blog «Effetto Risorse » all’indirizzo: https://ugobardi.blogspot.com/2014/11/la-piu-grande-storia-del-picco-mai.html

3. Conclusione: Moby Dick avrebbe potuto davvero distruggere il Pequod?

Abbiamo iniziato con la letteratura e con questa finiamo, ma… con un pizzico di scienza. Qualcuno si è chiesto: ma una balena come Moby Dick, identificata nel capodoglio (Physeter macrocephalus), sarebbe riuscita realmente a distruggere una baleniera? Alcuni ricercatori delle più diverse discipline si sono confrontati e ne è uscito un articolo scientifico[6] che, in sostanza, risponde affermativamente: un capodoglio ci sarebbe riuscito, magari dalla botta si sarebbe ripreso a fatica, ma sarebbe sopravvissuto.

La domanda è ovviamente molto controversa perché ci sono molte variabili di cui tener conto. È stata comunque oggetto di acceso dibattito almeno dai tempi del romanzo – che, pur romanzo, aveva bisogno di una sua plausibilità. Il testone di un capodoglio è qualcosa di bizzarro: «una delle strutture più strane nel mondo animale», scrive l’autrice principale dello studio, Olga Panagiotopoulou, esperta di anatomia, struttura ossea e meccanica dei grossi animali. Il motivo di questa stranezza è da tempo oggetto di studi.

I capodogli maschi possono essere lunghi fino a 18 metri: la fronte è un terzo della lunghezza e un quarto della massa corporea. Dentro ci sono due sacche piene di fluido, una sull’altra. L’organo dello spermaceti è quello sopra: non contiene sperma, ma la preziosa sostanza cerosa semiliquida per cui quelli come il capitano Achab andavano a caccia di balene. Il sacco in basso si chiama melone.

Ricerche precedenti stabiliscono che i sacchi servono per l’ecolocalizzazione: i cetacei si orientano emettendo suoni che vengono rimbalzati nell’ambiente circostante. Secondo altri studi, servono per galleggiare o a utilizzare i sonar per stordire le prede. L’idea che i capodogli utilizzino la testa come un ariete di sfondamento è stata diffusa sostanzialmente da Moby Dick, romanzo che abbiamo accennato essere ispirato alle leggende dell’Ottocento in cui i capodogli venivano accusati di aver affondare alcune baleniere, tra cui nel 1820 la Essex, salpata nel 1799 da Nantucket, in Massachusetts di cui film Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick tratta. Owen Chase, il primo ufficiale della nave, scrisse un libro che «descriveva la testa della balena come progettata in modo straordinario per questo tipo di attacco», racconta la Panagiotopoulou.

Questo accadeva l’attimo prima di divenire i padroni incontrastati del mondo. Tempi duri, si diceva, ma dove la nostra umana hybris poteva ancora essere messa in discussione da quella natura che si manifestava con la potenza della balena.


[6] Panagiotopoulou et al. (2016), Architecture of the sperm whale forehead facilitates ramming combat. «PeerJ», 4:e1895; DOI 10.7717/peerj.1895

Luciano Celi – Istituto per i Processi Chimico-Fisici, CNR di Pisa e Socio di Semi di Scienza

(http://www.cnr.it/people/luciano.celi)

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https://www.semidiscienza.it/2020/03/03/anatomia-della-balena-e-delle-risorse-energetiche/feed/ 0
The Blue Acceleration https://www.semidiscienza.it/2020/01/29/the-blue-acceleration/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=the-blue-acceleration https://www.semidiscienza.it/2020/01/29/the-blue-acceleration/#respond Wed, 29 Jan 2020 13:50:28 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=807 La finanza e la pressione sulle risorse ittiche

Un team di ricercatori dello Stockholm Resilence Centre della
Stockholms Universitet ha appena diffuso lo studio
“The Blue Acceleration: The Trajectory of Human Expansion
into the Ocean”, il cui autore principale è Jean-Baptiste Jouffray,
che lavora anche per il Global Economic Dynamics and the
Biosphere Academy Programme dell’Accademia Svedese
delle Scienze. Questo studio documenta la continua accelerazione
dell’enorme pressione che gli esseri umani esercitano sugli
oceani in termini di sfruttamento di risorse (idrocarburi, sabbia,
ghiaia, pesce, minerali, turismo, trasporti marini, dissalazione, ecc).

Jouffray è anche l’autore dello studio “Leverage points in the
financial sector for seafood sustainability”, pubblicato nel
2019 su Science Advances, dal quale risulta che sebbene
quasi il 90% della pesca mondiale sia ormai pienamente
sfruttata o sovrasfruttata, e si preveda che la domanda di
pescato cresca del 70% entro il 2050, dall’esame di quasi
un decennio di informazioni “non è stato possibile trovare
notizie di un solo prestito bancario all’industria ittica che
includesse criteri di sostenibilità”.

I prestiti bancari sono il modo principale con il quale le
compagnie ittiche finanziano le loro operazioni. Derivano
da accordi tra un prestatore e un mutuatario (Loan Covenants)
e vietano al mutuatario un certo comportamento: se venissero
incorporati dei criteri di sostenibilità nei Loan Convenants, le banche
potrebbero svolgere un ruolo chiave nel promuovere una rapida
trasformazione verso pratiche sostenibili, e le regole di quotazione
in borsa potrebbero ridurre significativamente la pressione sulle
risorse ittiche.

La maggior parte delle società presenti in borsa tra le 100 più grandi
aziende ittiche del mondo sono quotate in una manciata di borse:
la sola Tokyo Stock Exchange concentra il 53% delle entrate
delle compagnie ittiche quotate, mentre le quattro maggiori
(Tokyo, Oslo, Corea e Thailandia) rappresentano insieme l’86%.

Dallo studio “Transnational Corporations as ‘Keystone Actors’
in Marine Ecosystems” pubblicato su PLOS ONE nel 2015,
risulta che 13 Corporations controllano l’11–16% della pesca
marittima globale, e il 19–40% degli stock ittici più grandi e
preziosi del mondo.

DA CONSULTARE:

Jouffray et al., 2020, “The Blue Acceleration:
The Trajectory of Human Expansion into the Ocean”
http://dx.doi.org/10.1016/j.oneear.2019.12.016

Press release dello studio
https://www.sciencedaily.com/releases/2020/01/200124112931.htm

Recensione in italiano dello studio
http://www.greenreport.it/news/energia/blue-acceleration-la-pressione-umana-sugli-oceani-non-mostra-nessun-segno-di-rallentamento/
che riporta dati, riferimenti e spiegazioni anche a proposito dei
succitati “Transnational Corporations as ‘Keystone Actors’
in Marine Ecosystems”
https://doi.org/10.1371/journal.pone.0127533
e “Leverage points in the financial sector for
seafood sustainability”
https://advances.sciencemag.org/content/5/10/eaax3324

Il Team di Cambiamo (http://www.cambiamo.org/html/index.php) in collaborazione con il team di Semi di Scienza

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Crescita, progresso e bilanci https://www.semidiscienza.it/2019/12/03/crescita-progresso-e-bilanci/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=crescita-progresso-e-bilanci https://www.semidiscienza.it/2019/12/03/crescita-progresso-e-bilanci/#respond Tue, 03 Dec 2019 18:26:00 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=778 Il 18 Marzo 1968, presso l’Università del Kansas, Robert Kennedy pronunciò un discorso nel quale tra gli altri argomenti evidenziava l’inadeguatezza del prodotto interno lordo (PIL) come indicatore del benessere delle nazioni economicamente sviluppate. Tre mesi dopo venne ucciso durante la campagna elettorale che lo avrebbe probabilmente portato a diventare Presidente degli Stati Uniti d’America.

Qui di seguito un estratto del suo discorso del 1968:

” Ormai da troppo tempo sembriamo trascurare i valori individuali e quelli collettivi a favore del semplice accumulo di beni materiali.

Oggi il nostro prodotto interno lordo supera gli 800 miliardi di dollari l’anno. Ma se vogliamo giudicare gli Stati Uniti da quello, dobbiamo tenere presente che il prodotto interno lordo include l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per ripulire le nostre strade dalle carneficine.

Calcola le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che le forzano. Tiene conto della distruzione delle sequoie e della scomparsa delle meraviglie della natura dovute alla crescita selvaggia. Include il napalm, le testate nucleari, e i mezzi blindati usati dalla polizia per sedare le rivolte nelle nostre città. Tiene conto dei fucili e dei coltelli dei criminali, e dei programmi televisivi che glorificano la violenza, per poi vendere giocattoli violenti ai nostri bambini.

Il prodotto interno lordo non calcola però la salute dei nostri figli, la qualità della loro educazione, o l’allegria dei loro giochi. Non tiene conto della bellezza della nostra poesia, della solidità delle nostre famiglie, dell’intelligenza del dibattito pubblico, o dell’onestà dei nostri governanti. Non misura nè la nostra intelligenza nè il nostro coraggio, nè la nostra saggezza nè la nostra conoscenza, nè la nostra compassione nè la devozione per il nostro paese.

Misura di tutto, in breve, tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani.”

Sul tema del rapporto tra consumo materiale e benessere economico, sono estremamente significativi i dati di uno studio realizzato da un team di ricercatori statunitensi, australiani e britannici, che è stato pubblicato nel 2013 su Ecological Economics: in questa ricerca vengono analizzate le stime del PIL tra il 1950 e il 2003, per 17 paesi (Australia, Austria, Belgio, Cile, Cina, Germania, Giappone, Gran Bretagna, India, Italia, Nuova Zelanda, Olanda, Polonia, Svezia, Thailandia, Usa e Vietnam) nei quali vive il 53% della popolazione mondiale, e che messi insieme producono il 59% del PIL planetario. La conclusione è che, mentre il prodotto interno lordo mondiale è più che triplicato dal 1950, il benessere economico, così come stimato dal GPI (Genuine Progress Indicator, ovvero Indice di Progresso Autentico), è in realtà diminuito a partire dal 1978: in sostanza, già da 35 anni i costi della crescita economica hanno superato i vantaggi da essa apportati.

Il picco del benessere (1978) coincide, tra l’altro, con il momento in cui l’impronta ecologica dell’umanità (ovvero i consumi mondiali della popolazione) ha raggiunto, e poi iniziato progressivamente a superare la biocapacità del pianeta (ovvero la capacità naturale della Terra di rigenerare le risorse consumate). Oggi la specie umana preleva annualmente il 60% in più di quanto il pianeta riesce a riprodurre.

Nel 2019 il bilancio ecologico annuale del pianeta è andato in passivo (Earth Overshoot Day) dopo la data del 29 luglio, nei giorni successivi le risorse consumate causano gravi conseguenze sulla vitalità e gli equilibri degli ecosistemi e sulla stabilità di tutto il Pianeta.

Gabriele Porrati, Presidente della Cooperativa Onlus Cambiamo e Yuri Galletti, Presidente di Semi di Scienza.

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Cambiamento climatico e migrazioni forzate https://www.semidiscienza.it/2019/10/29/cambiamento-climatico-e-migrazioni-forzate/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=cambiamento-climatico-e-migrazioni-forzate https://www.semidiscienza.it/2019/10/29/cambiamento-climatico-e-migrazioni-forzate/#respond Tue, 29 Oct 2019 15:56:09 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=710 Nel 2000, il chimico olandese premio Nobel Paul Crutzen coniò il termine Antropocene per definire l’epoca geologica che va dalla Rivoluzione Industriale ai giorni nostri in cui l’ambiente terrestre è fortemente condizionato dagli effetti dell’azione umana. In particolare, i processi di combustione innescati dall’attività umana emettono tali quantità di gas serra da alterare la composizione dell’atmosfera. Il Rapporto Speciale 1.5°C dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), l’organismo internazionale guida per lo studio del cambiamento climatico, rivela che le emissioni di gas serra osservate dal 1750 hanno già causato l’aumento di 1°C della temperatura globale. Se le emissioni continueranno ai livelli attuali, tra il 2030 e il 2052 assisteremo ad un aumento della temperatura di 1,5 °C rispetto all’età pre-industriale.

Secondo gli scienziati, l’innalzamento della temperatura media globale avrà conseguenze enormi sulla Terra. Ampie fasce di territorio diventeranno più aride, e aumenteranno drasticamente le siccità estreme. Si stima che le aree colpite da siccità estrema aumenteranno dall’1 al 30% entro la fine del secolo. La frequenza e l’intensità delle piogge cambieranno, con alcune aree – quelle monsoniche – che saranno più interessate di oggi, ed altre – quelle alle medie latitudini – che lo saranno meno. Lo scioglimento dei ghiacciai porterà ad un innalzamento del livello delle acque del pianeta, stimato tra gli 8 e i 13 centimetri entro il 2030, tra i 17 e i 20 centimetri entro il 2050, e tra i 35 e gli 82 entro il 2100, a seconda dei modelli matematici usati per le previsioni. Questo avrà conseguenze potenzialmente enormi per le persone che vivono vicino ai delta dei fiumi e in generale nelle zone costiere, soprattutto sulle isole più piccole. L’innalzamento del livello dei mari comporterà anche una sempre maggiore salinizzazione del suolo, un fenomeno che avrà gravi conseguenze sull’agricoltura e che secondo le previsioni causerà alluvioni più devastanti.

Si stima che i paesi più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico saranno quelli in via di sviluppo, paradossalmente quelli che contribuiscono meno alle emissioni pro capite di gas serra. Il sud e l’est dell’Asia, in particolare, sono alcune delle zone più a rischio, principalmente per l’innalzamento dei mari, visto che sei delle dieci principali metropoli asiatiche sono costruite sul mare (Giacarta, Shanghai, Tokyo, Manila, Bangkok e Mumbai). Ma le migrazioni climatiche interesseranno ugualmente l’Africa, specialmente nel delta del Nilo, sulla costa occidentale e nella fascia subsahariana.

Il tema dei mutamenti climatici è quindi cruciale, poiché rischia di provocare cambiamenti sociali senza precedenti. Se un domani, infatti, larghe fasce dall’Africa sub-sahariana diventassero troppo aride a causa della rapida espansione della fascia equatoriale, o se la Groenlandia si sciogliesse completamente, causando un innalzamento stimato di 7 metri del livello dei mari e intere isole e territori abitati venissero sommersi, come potremmo gestire la migrazione di intere popolazioni?

Cambiamento climatico e migrazioni forzate

Lo United Nation High Commissioner for Refugee (UNHCR) stima che dal 2009 ad oggi una persona al secondo ha perso la propria casa a causa di un disastro naturale o climatico, per un totale di 22.5 milioni di individui. Norman Myers, noto ambientalista britannico, ha calcolato che entro il 2050 i rifugiati climatici potrebbero essere 200 milioni, un numero che supererebbe addirittura i 192 milioni di persone attualmente sfollate sul Pianeta (qui). La Banca Mondiale ha fornito una stima al ribasso, ma non meno preoccupante: 143 milioni di migranti climatici entro il 2050 (qui).

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), tuttavia, mette in guardia dal fare previsioni precise del numero di persone che saranno costrette a lasciare il proprio paese di origine direttamente a causa degli effetti del cambiamento climatico (qui). Le migrazioni, infatti, sono un processo complesso, il cui esito è determinato da una serie di fattori demografici, economici, sociali e politici interconnessi tra loro. Inoltre, come ricordato da Étienne Piguet (qui), professore all’Università di Neuchâtel ed esperto di migrazioni climatiche, le migrazioni ambientali avvengono principalmente all’interno degli Stati e su piccole distanze. In caso di ciclone o di uragano, ad esempio, le persone tenderanno a scappare nel luogo sicuro più vicino, per poi tornare a ricostruire il proprio villaggio o città. Solo chi ha i mezzi economici e culturali necessari ad affrontare una migrazione transazionale abbandonerà il proprio paese.

Il numero di persone che lascerà il proprio luogo di origine per circostanze ambientali sarà quindi determinato da una ampia serie di fattori aggiuntivi, prima fra tutte la risposta dei governi locali all’emergenza, ma anche la facilità, dal punto di vista legale, con cui sarà possibile spostarsi per questo genere di fenomeni.

I rifugiati climatici: mito o realtà?

Ad oggi non esiste uno strumento normativo che garantisca la protezione dei migranti transazionali forzati da cause climatico-ambientali – detti impropriamente rifugiati climatici o migranti ambientali. La convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati del 1951, infatti, restringe la condizione di rifugiato a chi è minacciato nel proprio paese da persecuzioni legate all’etnia, alla religione, alle opinioni politiche, alla nazionalità, ma non contemplano questioni ambientali. Ai cosiddetti rifugiati climatici, quindi, non è garantito il diritto di entrare e risiedere in un Paese diverso da quello di origine. Ne è esempio il caso di Ioane Teitiota, cittadino originario di Kiribati, un piccolo stato-arcipelago nel Pacifico, espulso dalla Nuova Zelanda dopo aver richiesto asilo perché l’innalzamento del livello dei mari provocato dai cambiamenti climatici aveva messo a rischio la sua vita e quella della sua famiglia.

La comunità internazionale è al lavoro per colmare questo vuoto normativo. La Platform on Disaster Displacement, un forum multi-stakeholders volto a implementare le raccomandazioni della Nansen Initiative Protection Agenda, approvata da 190 delegazioni governative nell’Ottobre 2015, mira a implementare standards e pratiche comuni per prevenire e gestire le migrazioni transnazionali legate agli effetti del cambiamento climatico. Gli Accordi sul clima di Parigi del 2015, invece, hanno chiesto esplicitamente che un comitato speciale istituito alla Conferenza sul Clima di Varsavia del 2013 si occupi di preparare delle linee guida per definire giuridicamente i migranti ambientali. Il Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration, il documento approvato nel dicembre del 2018 dall’Assemblea dell’ONU con il voto contrario, tra gli altri, degli Stati Uniti, chiede esplicitamente che i governi facciano dei piani per prevenire le migrazioni climatiche e per aiutare le persone che saranno costrette a spostarsi per questi motivi.

I rifugiati climatici mettono in crisi la distinzione normativa tra migranti forzati e migranti volontari su cui si basa il sistema di protezione internazionale ed europeo. Se le previsioni dell’IPCC sugli effetti del cambiamento climatico si riveleranno corrette, un numero consistente di persone potrebbe trovarsi non ammesso ad alcuna comunità politica, e quindi senza diritti, invisibile e perseguibile.

Stella Gianfreda, PhD in Scienze Politiche, Studi Europei e Relazioni Internazionali. Scuola Superiore Sant’Anna.

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L’esaurimento delle risorse e le renne dell’isola di San Matteo https://www.semidiscienza.it/2019/07/22/lesaurimento-delle-risorse-e-le-renne-dellisola-di-san-matteo/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=lesaurimento-delle-risorse-e-le-renne-dellisola-di-san-matteo https://www.semidiscienza.it/2019/07/22/lesaurimento-delle-risorse-e-le-renne-dellisola-di-san-matteo/#respond Mon, 22 Jul 2019 12:27:39 +0000 https://www.semidiscienza.it/?p=606 Ciò che sorprende dello studio legato al depauperamento delle risorse naturali è la constatazione di quanto questo aspetto abbia poca visibilità sui media. Mentre veniamo – e per fortuna! – costantemente martellati ormai sulla questione climatica e su quanto l’Umanità abbia delle responsabilità importanti su questo (al punto che una nuova era è stata definita dagli studiosi, quella dell’Antropocene), nulla o quasi viene detto sull’irresponsabile uso che la nostra società fa dell’energia.

Sarà che l’energia è un concetto tanto importante quanto fuggevole, ma, nonostante il rapporto tra il clima (e il suo cambiamento repentino) e la smodata combustione di energia fossile sia piuttosto evidente, dell’uno si parla e dell’altro no. Uno dei motivi è che l’energia tende a essere visto come un argomento scomodo e soprattutto senza una soluzione facile da attuare. Non che mitigare gli effetti sul clima abbia un modo semplice per essere gestito, ma almeno si intravvedono all’orizzonte delle possibili soluzioni, anche se scomode, come dover cambiare il nostro stile di vita.

Un esempio sull’energia – da intendersi qui nell’accezione più generale del termine e, in primis, quella di base: il cibo – può aiutarci a comprendere la situazione nella quale, come umanità, ci siamo cacciati. Questo aneddoto è una storia vera, una cosa accaduta realmente.

In piena seconda guerra mondiale, nel 1944, la Guardia Costiera statunitense decide di colonizzare temporaneamente un’isola remota, uno “scoglio” che aveva acquisito, nella contingenza del conflitto in corso, una importanza strategica legata alla sua posizione: nel mezzo del mare di Bering questa roccia di 357 km quadrati costituiva un punto strategico alla navigazione della marina militare. Decisero così di inviare un contingente di uomini: tecnici che montassero le apparecchiature, soldati che difendessero la posizione e, in via cautelativa… 29 renne. La cautela era d’obbligo: la guerra non sia sapeva che piega avrebbe preso e anche solo le condizioni climatiche proibitive (siamo pur sempre a latitudini quasi artiche) avrebbero potuto impedire i rifornimenti di viveri necessari.

Le cautele si rivelarono inutili: la guerra finì qualche mese dopo, gli uomini smontarono tutte le apparecchiature, una nave arrivò a prenderli e le renne, in un habitat a loro congeniale, furono liberate dal recinto e il mondo si dimenticò di loro fino al 1957, quando un gruppo di ricercatori visitò l’isola. Fecero una sommaria conta delle renne. Quante ne trovarono? Circa 1.350. L’ambiente favorevole e la totale assenza di predatori permisero alla popolazione un enorme sviluppo. Tutte erano in buona salute. Nel 1963 i ricercatori tornano di nuovo sull’isola e, ancora una volta, fanno una stima della popolazione. Nel giro di 6 anni la popolazione era passata da 1.350 a 6.000 capi. Il cibo “di qualità” (i licheni) per tutti cominciava a scarseggiare e quindi gli animali mangiavano l’erba, meno nutritiva. Ma il tasso di rigenerazione di una risorsa per sua natura rinnovabile (erba e licheni) era, data la popolazione, inferiore a quello con cui la risorsa stessa veniva consumata. Nel 1966 i ricercatori tornarono per la terza volta e non fu difficile fare la conta: le renne sopravvissute erano 42, di cui 41 femmine e 1 solo maschio. In capo a soli 3 anni le renne morirono tutte di fame e, possiamo suppore, tra indicibili sofferenze. Chi rimase faceva vita grama e la popolazione si estinse definitivamente intorno ai primi anni ’80. È facile immaginare che l’isola di San Matteo sia la Terra: nulla arriva “da fuori” e possiamo far conto solo quel che il Sole ci assicura attraverso l’irraggiamento. Noi siamo le renne: da lungo tempo abbiamo sconfitto gli eventuali “predatori naturali” – e in questo si comprendono anche i virus e i batteri che nei secoli passati hanno decimato la popolazione mondiale – ma le risorse energetiche e minerarie che abbiamo (identificabili con il cibo delle renne), siano esse rinnovabili o non rinnovabili, non sono infinite. Come abbiamo visto, se sfruttate troppo intensamente anche le risorse rinnovabili si trasformano in non rinnovabili. La questione climatica è senz’altro fondamentale, ma nell’ordine delle priorità umane è probabile che questa possa arrivare dopo quella energetica, soprattutto se continueremo a consumare mediamente così tanto.

Luciano Celi – Istituto per i Processi Chimico-Fisici, CNR di Pisa e Socio di Semi di Scienza

(http://www.cnr.it/people/luciano.celi)

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